Allestimenti suggestivi, testimonianze di ragazzi e... (Leggi tutto)
Da soli o quasi, contro la terribile ondata del contagio da coronavirus. Con poche risorse e strumenti. Senza però tirarsi mai indietro, nel tentativo di proteggere e curare i propri ospiti.
Se in prima linea nell’emergenza contro il diffondersi del Covid-19 ci sono certamente gli ospedali, non si può trascurare l’impegno e la fatica con i quali nelle residenze per anziani (Rsa) e in quelle per disabili (Rsd) medici, infermieri, educatori e ausiliari stanno combattendo da settimane con professionalità e abnegazione la battaglia per difendere gli ospiti dall’epidemia.
Su molte realtà – tra le quali la Fondazione Don Gnocchi e la Fondazione Sacra Famiglia - si sono accesi nelle ultime settimane i riflettori dei media a causa di indagini in corso da parte di alcune Procure, in primis quella di Milano.
«Di fronte all’esplosione del contagio e al rapido precipitare della situazione in Lombardia – sottolinea don Vincenzo Barbante (nella foto), presidente della Fondazione Don Gnocchi – le scelte operate sono state, comprensibilmente, quelle di concentrare tutti gli sforzi sulle terapie intensive e l’attività svolta dagli ospedali, riempitisi ben oltre le loro capacità iniziali. Ma questo ha fatto passare le nostre realtà in secondo piano: ci siamo trovati a dover affrontare questo impatto violento sostanzialmente da soli».
Il più esposto, perché quello le dimensioni maggiori, è l’Istituto “Palazzolo” di Milano, che accoglie 800 pazienti di età media prossima o superiore agli 85 anni, dove nelle ultime settimane si sono purtroppo verificati numerosi decessi, anche se non tutti dovuti al Covid-19: «Fin dai primi giorni dell’epidemia – puntualizza il presidente – abbiamo avanzato pressanti richieste per avere a disposizione almeno ausili e dispositivi di protezione individuale (Dpi), come le mascherine, che la Protezione civile aveva requisito dal mercato. Quello che ricevevamo era enormemente inferiore al bisogno. Abbiamo avuto difficoltà anche con i tamponi e ci siamo visti bloccati o sequestrati materiali ricevuti per beneficenza, o che eravamo riusciti a procurarci acquistandoli all’estero. Sforzi e difficoltà che abbiamo ampiamente dimostrato nella memoria difensiva ora nelle mani degli inquirenti».
Sulla stessa linea anche don Marco Bove, presidente della Fondazione Sacra Famiglia, che ricorda anche l’appello alle istituzioni per avere tamponi e Dpi: «Comprensibile - dice - l’attenzione del ministero della Salute al mondo sanitario, ma noi abbiamo sempre lanciato appelli perché ci si occupasse anche delle persone più fragili, prevedendo che se l’epidemia avesse sfondato nelle Rsa e nelle Rsd sarebbe stata una Caporetto. Purtroppo siamo stati profeti…».
Nessuno, assicurano i due presidenti, ha mai impedito al personale di usare le mascherine: «Abbiamo utilizzato i Dpi applicando alla lettera le regole indicate dalle disposizioni ministeriali, dall’Istituto superiore di sanità e dalla Regione - spiega don Barbante -, invitando i nostri operatori a utilizzare i dispositivi con razionalità e buon senso, proprio perchè scarsi. Ogni nostra decisione è sempre stata condivisa con i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza. E in tutti i casi di positività, abbiamo avviato le procedure di isolamento, di mappatura e di tampone sui contatti esposti al rischio di contagio, sempre secondo quanto definito dalle autorità. Non c’è mai stata carenza di informazioni: anche la comunicazione di tali situazioni è stata ed è tuttora gestita secondo le raccomandazioni delle autorità».
Lo confermano i primi riscontri riportati in questi giorni dalla stampa sull’indagine portata avanti dalla magistratura: fino a metà marzo almeno, e dunque per oltre tre settimane dallo scoppio dell'epidemia, il Coronavirus ha potuto diffondersi in molte case di riposo anche per l'assenza di indicazioni che raccomandassero a tutti gli operatori, e di conseguenza alle strutture, di usare le mascherine.
Il 14 marzo nelle "indicazioni" aggiornate dell'Iss, anche sulla base delle linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, si raccomandava di usare le mascherine chirurgiche agli operatori in contatto con malati Covid e quelle “ffpp2-3” per l'assistenza ai positivi in procedure con aerosol. Mascherine che, invece, non erano raccomandate per il "contatto diretto con pazienti non sospetti Covid*. E ciò in un quadro noto di mancanza di tamponi (andavano agli ospedali in via prioritaria come le mascherine) per accertare la positività di ospiti e personale delle Rsa.
E nelle indicazioni della Direzione Welfare della Regione Lombardia, che richiamavano la normativa nazionale e le linee guida dell'Oms, il 3 marzo si segnalava che "le persone maggiormente a rischio di infezione" sono coloro che si "prendono cura di pazienti affetti da Covid-19". Per questo veniva scritto che per i pazienti "senza sintomi respiratori" non erano necessari i dispositivi e che per gli operatori sanitari in contatto con malati senza sintomi respiratori bastavano le protezioni "per l'ordinario svolgimento della propria mansione".
Entrambi i responsabili delle Fondazioni, poi, ricordano la controversa delibera dell’8 marzo che indicava le Rsa come possibili ricoveri per i malati di Covid.
«Abbiamo accolto il pressante appello della Regione – ricostruisce don Barbante - per sgravare gli ospedali per acuti di pazienti in fase di remissione e abbiamo messo a disposizione all’Istituto “Palazzolo” un reparto di 36 posti letto in uno spazio del tutto separato dalla Rsa, con ingressi e percorsi distinti. Anche il personale medico, offertosi volontario, è dedicato solo a questi pazienti, senza alcun contatto con gli altri operatori. Tutte le nostre politiche di contenimento dell’epidemia, così come in tante altre Rsa, ci hanno consentito di rallentare e limitare l’ingresso del virus nei reparti, presumibilmente dovuto a personale positivo, che ha superato il triage perché purtroppo asintomatico».
In un quadro difficile e drammatico – anche per la carenza di personale, dovuto a malattie e quarantene – in tutte le strutture delle due Fondazioni si continua tuttavia a operare al meglio e con turni massacranti.
«I nostri medici, infermieri e operatori – conclude don Barbante - non sono meno eroi di quanti si stanno prodigando nelle strutture ospedaliere. Noi siamo vicini al dolore delle famiglie e di coloro che hanno perduto i propri cari, che abbiamo sempre accolto e assistito in tutti i nostri Centri con grande professionalità e profonda umanità. Ma anziché puntare il dito per quelli che purtroppo, nonostante i nostri sforzi e il nostro impegno non siamo riusciti a proteggere, vorremmo il necessario aiuto e sostegno per quelli che ancora stiamo curando e salvando».
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