Allestimenti suggestivi, testimonianze di ragazzi e... (Leggi tutto)
di don Vincenzo Barbante
presidente Fondazione Don Gnocchi
Ancora una volta attraversiamo insieme tempi difficili. Di nuovo siamo messi alla prova e chiamati a mettere in gioco scienza, cuore e fede per sostenere la sfida contro il male. Abbiamo intravisto l’orizzonte della fine della pandemia ed ecco emergere i venti della guerra. Di fronte al Covid 19, colti di sorpresa, ci siamo sentiti smarriti, ma non rassegnati per questo male generato dalla natura. Ora, increduli e sgomenti, ci misuriamo con gli effetti della violenza operata dall’uomo sull’uomo. Una follia che si poteva e doveva evitare.
Nuovo sangue è stato sparso su una terra, forse lontana, ma che molti ricordano essere sacra anche per il nostro Paese. Migliaia di giovani italiani, soprattutto alpini, proprio su quella terra hanno gettato l’ultimo sguardo della loro esistenza anelando agli affetti più cari. In quei luoghi don Carlo ha incontrato Cristo nei volti segnati dalla fame, dal freddo, dalle ferite delle armi. Da quella terra è scaturito qualcosa di nuovo nella sua vita e nel profondo della sua vocazione di prete. La narrazione di quanto ha vissuto è custodita nel suo straordinario scritto “Cristo con gli alpini”. Rileggendone le pagine, sembra che il tempo non sia passato. Il ripetersi degli eventi rimprovera di non aver imparato nulla dal passato, di non aver saputo costruire il presente sulla memoria di qualcosa di sacro, come le vittime della guerra. Affido a voi la lettura di alcuni passi scritti da don Carlo.
«Quanti ne ho visti, di bimbi, nel mio triste pellegrinaggio di guerra. Tragico fiore sulle macerie sconvolte e insanguinate d’Europa, pallida luce sulla fosca agonia di un mondo. (…) Bambini di Russia, dell’Ucraina, delle steppe del Don e della Russia Bianca. (…) Rassegnati e assenti a spingere il carrettino delle masserizie, nelle lunghe e mute teorie di profughi che bordavano le strade delle retrovie rombanti di motori e di armi, sotto l’incubo degli aerei saettanti nel cielo. (…) Poveri bimbi della mia guerra, miei piccoli amici di dolore, dove sarete oggi e che sarà di voi? Eppure, soltanto da voi ci è stato dato di cogliere qualche gesto di dolcezza e di speranza in così orribile tragedia di odi e di sangue. Quando si arrivava nelle città conquistate e infrante, i visi e le case dei nemici si sbarravano astiosamente; dietro gli spiragli lampeggiavano sguardi di rancore e covavano propositi di vendetta; agli angoli delle strade deserte si preparavano gli agguati dei partigiani. Ma i bimbi no. Dopo la prima sorpresa, uscivano timidi dalle case, si accostavano guardinghi e curiosi alle potenti macchine di guerra, toccavano con mano innocente e incredula le armi lucenti, s’intrufolavano nei crocchi dei soldati stanchi dalla lotta ascoltandone i discorsi senza intenderli e, se qualcuno di essi aveva sete, saettavano con la gavetta a prendergli l’acqua. E il soldato più anziano, levatosi in casco che gli dava un’inutile fierezza, seduto a metà del parafango di un carro armato, chiamava con qualcosa di buono il più piccino, il più biondo o quello che somigliava di più al suo bambino lontano e lo carezzava pensoso. Nel fanciullo si riconciliava e rinasceva la vita infranta dalla guerra».
Ho scelto questa pagina perché più di altre è capace di evocare il dramma del dolore innocente. Quel dolore che quotidianamente cerchiamo di curare nei servizi che prestiamo, come Fondazione intitolata a don Carlo. Ogni ospite accolto è una sfida alla nostra capacità di offrire sollievo e speranza. Don Gnocchi ci ha insegnato il primato, come valore terapeutico, della condivisione. Di fronte alla malattia e alle varie forme di fragilità il rimedio dell’umana solidarietà è fondamentale. Certo, non possiamo ignorare l’impegno richiesto a livello organizzativo e gestionale, ma quanto dobbiamo lottare perché la “poesia della carità”, non sia offuscata dalla burocrazia. Incessantemente invochiamo nuovi contributi dalla ricerca scientifica e dal progresso tecnologico, ma tutto questo, se manca la solidarietà umana, non sembra sufficiente.
Cosa diremo ai bambini di oggi, che cosa offriremo ai loro sguardi ingenui spalancati su una generazione di adulti capace di promesse geniali di progresso, ma incapace di perseguire un progetto condiviso di pace e di fraternità? Eppure, questo è il desiderio che gran parte dell’umanità coltiva e non mancano profeti e testimoni che quotidianamente si adoperano per questo.
Che fare? Di fronte al male, alla fragilità che segna il nostro tempo, non possiamo, non vogliamo rassegnarci all’impotenza. Abbiamo tutti la responsabilità di gettare semi di speranza e immaginare di realizzare davvero un futuro diverso. Per quanto possa essere lodevole, non basterà curare le ferite, ma convocare tutti gli uomini di buona volontà per disegnare e costruire un’umanità nuova.
Occorre adottare con determinazione una “terapia dell’anima”, come diceva don Carlo, che porti a riconoscere nel perseguimento del bene comune lo scopo di ogni pensare e agire, sapendo che il mio bene dipende dal bene dell’altro. È una terapia che chiede un costante esercizio di ascolto e dialogo, capacità di voler affrontare insieme i problemi e ricercare, senza mai arrendersi, possibili soluzioni sostenibili. Si può, si deve dare sempre una possibilità al bene. Affermare questo in un momento così difficile sono consapevole che esige una buona dose di coraggio. Il coraggio di chi non si rassegna alla logica del male, ma dona la vita per il bene dei fratelli.
Il pensiero corre al Calvario e si ferma di fronte a Gesù sulla croce, solo e inerme. Dopo la notte dei tradimenti, delle fughe, delle violenze e delle torture, dei processi farsa, di chi si è lavato le mani, del sangue e della sete, tutto è compiuto: anzi no. Una possibilità è stata data. La morte non è, non ha l’ultima parola. Questo ci annuncia la Pasqua di Gesù.
La fede in lui e nella sua Parola, sorreggono in noi la speranza di pace e l’impegno a operare nel presente e nel futuro per il bene dell’uomo, di ogni uomo: “accanto alla vita, sempre”.
Tutto il resto, come ricorda il Qoèlet, è vanità.
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