Il progetto - attivato al Centro S. Maria ai Colli -... (Leggi tutto)
La Fondazione Don Gnocchi piange la scomparsa dell’alpino Ugo Balzari, “andato avanti” il 15 marzo all’età di cento anni e amico dell’Opera creata dal beato don Carlo, con il quale visse la drammatica esperienza della ritirata di Russia durante la seconda guerra mondiale.
Ugo Balzari (nella foto) aveva tagliato il traguardo del secolo di vita lo scorso 3 ottobre ed era probabilmente l’ultimo reduce del battaglione Edolo, in cui fu inquadrato nel 1942. All’età di 82 anni aveva voluto tornare in Russia “per chiedere perdono” e ripercorrere lo stesso tragitto fatto nella steppa 62 anni prima, a quaranta gradi sottozero.
Nato a Milano nel 1922, legatissimo alla valle Camonica, alle sue penne nere e alle montagne, socio dell’Associazione nazionale alpini, Ugo Balzari visse la guerra come portaordini sciatore del Battaglione Edolo, inquadrato nel 5° Reggimento alpini, Divisione Tridentina. L’Ana lo ricorda come un “uomo di multiforme ingegno, progettista, alpinista di valore, poeta, persona di umanità e generosità inarrivabili”.
Lucidissimo fino all’età avanzata, nel 2015 scrisse tra l’altro un libro intitolato “Scusa nonno, forse io non capisco, ma perché sei andato a fare la guerra?”, edito dal gruppo alpini di Edolo. In queste pagine di raccolta dei ricordi e della propria storia, l’autore ha raccontato i drammatici giorni della gelida ritirata del gennaio 1943, dedicando una sezione al cappellano militare don Gnocchi, che Balzari ebbe modo di conoscere durante la campagna di Russia e che ricordava così nel momento in cui si accingeva a benedire i corpi dei caduti: «Don Gnocchi parlava da solo come un matto. No. Parlava con il suo Dio: “Dimmi perché mio Dio? Perché? Dio mio… Dio mio. L’olio l’ho finito… userò la neve… tanto quello che conta è il segno della croce… il segno di un martirio che continua”».
In anni recenti, Ugo Balzari è stato tra l’altro presente a varie commemorazioni del beato don Carlo Gnocchi, esprimendo i suoi racconti sul cappellano, sulla guerra, sugli alpini in modo lucido, intenso, carico di particolari.
I funerali saranno celebrati domenica 26 marzo, alle ore 11, a Milano, in località Lago Mezzetta (zona Baggio). In un momento successivo, è prevista una cerimonia nella chiesetta alpina dell’Alpe Mola a Edolo (Bs), intitolata al Beato don Gnocchi e dedicata ai Caduti del battaglione Edolo (nella foto), dove verranno custodite le ceneri, insieme al suo cappello alpino. «Papà Ugo ci ha lasciato per raggiungere la sua amata Marisa e le sue adorate montagne», hanno scritto i figli Andrea e Nicoletta. A loro e all’intera famiglia vanno le più sentite condoglianze.
Riportiamo un ricordo che Ugo Balzari ha dedicato a don Gnocchi, pubblicato dalla rivista Missione Uomo nel 2008.
Le vecchie trincee sono ghirigori di ombre appena accennate sulla neve fresca della collina. Rimane ancora ben visibile l'entrata al bunker comando, con il tunnel lungo una trentina di metri che conduceva ai punti di osservazione sul Don. «Ecco, le postazioni più avanzate dei russi stavano proprio su quell'isola che divide il fiume in due corsi. Erano a meno di 150 metri dalle nostre. Da fine novembre la superficie dell'acqua era interamente ghiacciata, la si poteva attraversare armati correndo per meno di un minuto».
Così raccontava qualche anno fa Ugo Balzari, milanese, classe 1922, reduce alpino, tornato sul Don per un pellegrinaggio della memoria, quasi a ripercorrere un capitolo della vita che lo vide partire ragazzo e tornare uomo, ferito nell'anima da ricordi che lo hanno segnato per sempre.
Arruolato il 7 gennaio 1942 come portaordini sciatore del Battaglione Edolo, partiva ai primi di luglio dello stesso anno inquadrato nella divisione alpina Tridentina. Destinazione Russia, a fianco dell'alleato tedesco. «Noi 57.000 alpini di Tridentina, Julia e Cuneense originariamente eravamo destinati al Caucaso, ma poi quell'estate i russi sfondarono sul settore presidiato dai fanti italiani della Sforzesca e fummo mandati di rinforzo. Dovevamo combattere in montagna, ci ritrovammo nelle trincee di una pianura infinita. Le uniche alture erano le colline di terreno gessoso lungo il Don». Oltre 220.000 italiani impegnati sul fronte, di loro 104.000 meno di un anno dopo erano morti o spariti per sempre nei gulag siberiani.
«Si è salvato più facilmente chi era allenato alla fatica fisica e portava ordini a piedi come me. I furieri, chi restava in ufficio, gli ufficiali, non ce l'hanno fatta a camminare 30, 40, sino a 60 chilometri al giorno nella neve. In 9 giorni percorremmo quasi 300 chilometri per uscire dalla sacca a Nikolajevka e poi altri 700 per arrivare ai treni che ci avrebbero portati a casa. Noi dell'Edolo fummo ancora fortunati. Sui circa 1.700 partiti, tornammo in Italia poco più di 400, anche perché molti venivano dalle stesse valli, si conoscevano, parlavano gli stessi dialetti, mangiavano lo stesso formaggio e bevevano lo stesso vino».
L'ordine della ritirata lo portò lui stesso con gli sci alle postazioni avanzate dell'Edolo, sul Don, nel villaggio di Bassovka. Erano le 17,30 del 17 gennaio. Tre giorni dopo, alle porte dell'abitato di Skororyb, il primo massacro per mano di un nemico cento volte più forte.
«*Fu allora che conobbi un santo. Era don Gnocchi, cappellano del 5° Alpini, umano sempre, anche quando si uccideva il commilitone per un pezzo di pane, per rubargli il posto più vicino alla stufa. Avevo compiuto da poco 20 anni. Il 19 gennaio il Battaglione Edolo arrivò a Skororyb. Sul filo della “balka”, così si chiamavano le colline, stagliati nel cielo grigio di neve vedemmo quattro carri armati russi e slitte con mitragliatori pesanti condotte da soldati siberiani. Seguì un combattimento durissimo. Conquistammo il paese al termine di un vero e proprio massacro di uomini, da ambo le parti. La sera stessa don Gnocchi chiese al maggiore Belotti, comandante dell’Edolo, di avere a disposizione quattro alpini: voleva ritornare sul campo di battaglia a benedire i morti. Gli vennero accordati. Tra di loro c’ero anch’io. “Ragazzi, coraggio – ci disse don Carlo -. Dovete dispormi i corpi in maniera che io possa fare il segno della croce sulla loro fronte. Coraggio… Scucite le piastrine di riconoscimento che stanno sotto il bavero: me le consegnerete in isba”.
*Carponi nella neve, ricomponemmo i corpi di quei ragazzi. In ginocchio, passando da un morto all’altro, __sentivo don Carlo ripetere: “Dio perché, perché Dio?”. Quando poi si accorse che sistemavamo soltanto i nostri alpini, ci raccomandò: “No, ragazzi. Non solo gli alpini. Anche i russi, i siberiani. Tutti! Perché qui siamo tutte creature di Dio…”__».
A Nikolajevka Balzari ci arrivò direttamente dai combattimenti di Arnautovo e Nikitovka. «Era mezzogiorno del 26 gennaio. Giunsi al terrapieno della ferrovia dove sino a un paio d'ore prima erano morti 10.000 alpini. Passai vicino a un piccolo tunnel di mattoni rossi sotto le rotaie. Una ventina di metri letteralmente coperti di cadaveri. Nella chiesa di fronte, dove si trovavano i nidi di cecchini russi, scoprimmo una scorta di pane. Che buono! Il miglior pane che abbia mai mangiato in vita mia. La mattina dopo ripartii alle tre. Percorsi 60 chilometri in una volta sola. Ma ormai eravamo fuori dall'accerchiamento. Ricordo che quel giorno, per la prima volta dopo mesi di cielo color latte sporco, il sole spuntò tra le nubi. Raggiunsi a piedi il treno per l'Italia a Gomel solo il 5 marzo».
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