ALPINI

Frammenti antologici

Tutto è bianco in pieno. Questo, e lo stato di allarme, non mi permette di celebrare solennemente e pacificamente la santa Pasqua. Faremo di notte, e come preparazione potrà servire la vita di lavoro e di sacrificio che conducono questi poveri ragazzi, con una tranquillità e serenità quasi noncurante, che è davvero meravigliosa. Pensi: montare di sentinella e star di vedetta agli appostamenti con le armi con nottate come queste. Neve, bufera, tormenta. E anche star sotto la tenda è un affare. Glielo assicuro anch’io…Con tutto questo, e qualcosa d’altro, vedesse come sono buoni e pazienti questi figliuoli! È vero che si fanno miracoli per rifornirli di viveri, ma a dieci ore dalla base, con questa montagna e con questo tempo, si fa quel che si può…Ci vorrebbero qui molti dei nostri ragazzi del Gonzaga, e sono certo che farebbe loro bene la cura. Ma l'alpino canta; così gli passa... Ma il più bello non è qui. Non c’è quasi tenda dove non si reciti il santo rosario ogni sera! Sono andato anch’io un po’ per turno a presiederne la recita nelle tende più capienti e le dico che poche volte in vita mia l’ho detto con maggior fervore e commozione. Alle litanie questi cari ragazzi balzavano tutti in ginocchio nella fanghiglia e giungevano le mani devotamente. Come può la Madonna non proteggere queste anime semplici e generose?
(Lettera al direttore del Gonzaga, 12 aprile 1941)

Gli alpini non dicono nulla. Marciano, lavorano e tacciono. Quasi ostinatamente. Non chiedono nulla. Anche l’eroico è per loro normale. Lo straordinario è ordinario. Io mi vergogno davanti a loro, nel trovare eccezionale e bella questa mia vita, e penso anche spesso ai nostri ragazzi che sanno troppo poco il sacrificio, o, meglio, lo sanno troppo esaltare, davanti a sé, davanti agli altri e davanti a Dio. Potessi imparare anch’io dai miei alpini questa virtù sublime: di rendere naturale e quasi inavvertito il sacrificio! Noi posiamo troppo. La sem¬plicità evangelica essi solo la possiedono: i poveri e gli umili. Lo creda, caro direttore, io mi sento umiliato davanti a questi ragazzi.
(Lettera al direttore del Gonzaga, 20 aprile 1941)

Mi sono accorto anch’io che non so fare sacrificio, o, meglio, non so farlo con la semplicità, la inavvertenza ed il candore di questi ragazzi, i miei alpini. Questi fanno la vita dura! Questi hanno la stoffa dell’eroe. Anch’io ho dormito con loro e come loro sulla roccia, ho tirato la cinghia, ho camminato col sacco in spalla, ma confesso che tutto ciò mi è troppo presente allo spirito, e che mille volte mi sono sentito piccolo di fronte alla nobiltà e grandezza di questi semplici.
(Lettera agli alunni del Gonzaga, 23 aprile 1941)

Vi assicuro ragazzi che è una vita molto dura, anzi tanto più dura quanto più manca l’entusiasmo e il fervore dell’eroismo e della guerra. Ma queste cose le dico assai più per me che per i miei alpini, i quali mi hanno dato un esempio sublime di semplicità e di forza. Io sono venuto alla guerra con troppa dose di romanticismo e di giornalismo nelle vene. Ma loro hanno appreso la cosa senza meraviglia ed hanno cominciato a marciare silenziosamente, direi religiosamente, con lo stesso impegno col quale in linea tenevano le posizioni o andavano all’assalto. Vi assicuro che questi alpini sono la mia “meditazione giornaliera” ed ho imparato ed imparo molte cose da loro. Attuarle però è un’altra cosa.
(Lettera agli alunni del Gonzaga, 29 aprile 1941)

E resterà nella mia vita il ricordo dolce e commovente di questi rosari, recitati sotto il cielo immenso, con intorno il gregge fitto e nero dei miei alpini inginocchiati sulla nuda terra e sparsi a gruppi sulle rocce! Ora col mese del Sacro Cuore la funzione serale è divenuta una manifestazione solenne di fede e di pietà.
(Lettera al cardinale Schuster, 6 giugno 1941)

Perché si può vincere l’insidia degli uomini, uomo contro uomo- anche se più agguerrito di armi -ma occorre una forza interiore e un valore personale di assoluta eccezione per vincere la guerra di una natura così ossessiva e disumana, e una stagione così ostile come quella che gli alpini hanno dovuto affrontare e superare. …Nella storia di questa valanga di uomini che cozza undici volte contro la ferrea parete della sua prigionia e la sfonda, è difficile raccogliere episodi individuali. Tutti hanno dato fino all’estenuazione, fino all’eroismo…Tutti hanno compiuto opera veramente sovrumana Dio fu con loro, ma gli uomini furono degni di Dio.
(Cristo con gli alpini, 1942)

Porto con me, negli occhi, il sorriso casto dei miei alpini. Non è facile né molto frequente che l’alpino sorrida. Il sorriso è una sfumatura, ha tenuità che difficilmente si intonano all’architettura razionale dei volti montanari…L’alpino non è facile ad aprirsi e a fondersi. Ai primi contatti con una persona nuova si irrigidisce, come certi fiori selvatici delle sue montagne gelosi e irsuti. Risponde breve e asciutto, difficilmente raccoglie il motto festoso e invitante, quasi si disturba al discorso scherzoso o troppo abbondante. Si direbbe che stia in guardia e studi pacatamente l’interlocutore. La vita solitaria della montagna coi suoi silenzi maiestatici e il breve cerchio delle amicizie al paese gli conferiscono questo fortunato istinto di vigilante temperanza, che è segno preciso di compiutezza e di sufficienza spirituale.
(Cristo con gli alpini, 1942)

A voler definire l’animo religioso dell’alpino, bisogna per forza rifarsi al termine e al concetto di “pietas”, così comprensivo e così caro ai latini. La religione, per questa gente, non è mai un momento o un episodio; è uno stato, una forma, un modo di vita; sangue vivo e succo vitale. Una disposizione permanente e quasi istintiva verso l’eterno, che dà sapore e colore a tutte le manifestazioni della loro vita e imbeve il loro linguaggio concreto e incolore, levandolo ad una dignità, e spesso ad una maestà di sapore quasi biblico…Né molto numerose e varie sono le idee religiose di questa gente. Dio, l’anima, la Provvidenza e l’aldilà, con la sua chiara e acquietante giustizia per tutti. Ce n’è abbastanza per costruirvi saldamente tutta un’esistenza, come su pochi pilastri di roccia gettati nel fiume rapido e insidioso della vita.
(Cristo con gli alpini, 1942)

Certo la radio del 4 febbraio (come ci è stato riferito) ha detto molto dell'epica impresa della Tridentina così come il Bollettino tedesco, ma solo chi ha vissuto questi giorni può rendersi un conto adeguato della grandezza degli alpini, che, accerchiati senza via di scampo e non per colpa loro, hanno percorso 400 chilometri nella neve, senza dormire, o al più bivaccando intorno ai fuochi, con temperature sempre aggirantesi sui 30–35 gradi sotto zero, senza nulla da mangiare, ed hanno sostenuto tredici combattimenti per rompere l'accerchiamento e rientrare nelle linee.
(Lettera a Mario Biassoni, 24 febbraio 1943)