Il progetto - attivato al Centro S. Maria ai Colli -... (Leggi tutto)
«Un malato è come una persona imprigionata: ha bisogno dell’amicizia, come dell’aria. L’incontro con una persona amica è come una porta che si apre su un sentiero promettente: il malato non può forse andare molto lontano, ma sa che c’è un sentiero. Un giorno forse potrà correre in libertà. Nei giorni o anni dell’ingiusta detenzione capita che si riconosca una porta che non si è mai notata prima, una porta che non è solo un passaggio per entrare e per uscire, ma una porta che si apre con una voce che invita. È la porta da cui entra il pastore: entra e chiama a seguirlo... Entra non come un ladro, non come un carceriere, ma come il pastore che si chiama Gesù. Anche chi non l’ha mai visto, anche chi se ne è dimenticato, anche chi non ci ha mai pensato riconosce la voce che aspettava, accoglie l’invito che desiderava, si commuove per una attenzione che sospirava senza ritenerla possibile. È la porta della Parola. È l’incontro con Gesù...».
Sono le parole di monsignor Mario Delpini, arcivescovo di Milano, pronunciate nel corso della Liturgia della Parola, sul tema “Io sono la Porta” (Gv 10,7), celebrata questa mattina, giovedì 11 febbraio, al santuario milanese del beato don Carlo Gnocchi, in occasione del momento celebrativo della diocesi ambrosiana per la XXIX Giornata Mondiale del Malato, memoria liturgica della Beata Maria Vergine di Lourdes.
L’incontro con l’arcivescovo si è svolto nel rispetto delle vigenti normative sul contrasto alla pandemia ed è stato trasmesso in diretta streaming sui canali della Fondazione (clicca qui per rivedere l'intero incontro), con la partecipazione di ospiti, operatori e volontari della Fondazione Don Gnocchi e di altre strutture socio-assistenziali e sanitarie della diocesi ambrosiana. Presenti, tra gli altri, anche il presidente della Fondazione don Vincenzo Barbante, il presidente onorario monsignor Angelo Bazzari, il rettore del Santuario don Maurizio Rivolta, e l’assistente spirituale del Centro “Vismara-Don Gnocchi” di Milano don Mauro Santoro.
È toccato a Gabriele, da trent’anni ospite del Centro “S. Maria Nascente” di Milano, dare il benvenuto all’arcivescovo e ringraziarlo, a nome di tutti i presenti: «Questo è stato un periodo molto duro, per me e per tutti noi ospiti - ha detto Gabriele -. Però l’amicizia fra noi ci aiuta a sopportare questo momento difficile e molto duro. Però con l’aiuto degli educatori, degli assistenti, del personale medico e di tutti stiamo cercando di superare questa situazione. La pandemia ci ha fatto apprezzare le videochiamate, perché prima sembravano un’assurdità, visto che eravamo abituati a vederci molto spesso, mentre adesso ci accorgiamo che possono valere molto. Io però sono convinto che se il Signore ci toglie da una parte, ci da sempre qualcosa da un’altra. E l’aiuto delle persone che qui ci vogliono bene è veramente una grande medicina. Io sono fiero e grato di essere ospite della Fondazione Don Gnocchi. Grazie per essere qui con noi oggi...».
La riflessione dell’arcivescovo si è soffermata sulla metafora della malattia come prigione, a cui però si accompagna una costante speranza: «Il malato – ha sottolineato - è come un prigioniero. È chiuso nella sua cella. Non può uscire. Protesta di essere innocente. Si immagina che qualcuno abbia tramato contro di lui per farlo rinchiudere. Cerca di pensare al perché qualcuno gli ha voluto male. Chiuso nella sua cella gli è impedito tutto quello che prima era consueto e quotidiano: si sono spezzati i rapporti ordinari. Gli è impedito di comunicare con gli altri. Forse anche agli altri è impedito di fargli visita. Perché non viene nessuno? Perché, soprattutto, non vengono quelli che lui aspetta con più ardente desiderio? È pieno di risentimento. Gli è impedito di fare quello che faceva: avrebbe tanto da fare! Ci sono scadenze improrogabili. Chi ci penserà? È chiuso nella sua cella: che gli succederà? Che sarà della sua carriera? Per quanto tempo sarà così ingiustamente imprigionato?».
“Ci sono porte?”, si è dunque chiesto monsignor Delpini, con un evidente riferimento alla drammatica attualità dell’ultimo anno di emergenza sanitaria, ai sogni e alle aspirazioni di tanti pazienti: «In questa ingiusta detenzione capita però che a un certo punto si apra la porta della cella: c’è qualcuno che lo chiama. È un sogno? È realtà? Il prigioniero accoglie l’invito. Forse è un sogno, forse è una realtà. Si mette in cammino: segue una voce amica. Forse è solo un’ora di libertà, un’ora d’aria come spetta ai prigionieri. Ma la porta si è aperta. Segue una voce amica. L’amicizia è sempre un dono meraviglioso, ma per chi è imprigionato è una grazia necessaria. Quando un amico visita il detenuto nella sua cella non cambia la sua situazione, non sa rispondere alle sue domande, non può garantire di tornare tutti i giorni. Non è importante che porti dei doni: è un grande dono l’essere lì. Non è importante che abbia da dire cose nuove o pensieri elevati. È importante che sia un amico con cui si può parlare. Per colui che è imprigionato è come una porta che si apre, è come la rassicurazione che là fuori c’è qualcuno che pensa a lui e che desidera incontrarlo».
Nei giorni o anni dell’ingiusta detenzione, secondo l’arcivescovo viene un momento in cui la cella che imprigiona si apre, ma verso l’alto, indicando una direzione misteriosa: «Attrae, ma insieme inquieta – ha insistito Delpini -. Si apre la porta del cielo. C’è qualche cosa come un sorriso di Madre che rasserena, c’è qualche cosa come un colore di cielo che induce anche il prigioniero dell’angusta cella a qualche cosa che assomiglia alla speranza. Nella porta del cielo Maria, senza parole, come usa, infonde un desiderio struggente di pace e una consolazione indicibile. Il tempo della malattia è come un tempo di ingiusta detenzione. C’è tanta angoscia, tanta rabbia, tanto smarrimento. E tuttavia anche nella cella desolata si aprono porte: la porta dell’amicizia, la porta del buon pastore, la porta di Maria».
Al termine, il presidente della Fondazione Don Gnocchi, don Vincenzo Barbante, ha ringraziato l’arcivescovo per il momento di riflessione dedicato a coloro che sono ammalati e a quanti operano nell’ambito della sanità: «C’è una coincidenza favorevole da questo punto di vista – ha sottolineato don Barbante -. Il 28 febbraio 1956 don Carlo concludeva il suo cammino terreno. Un cammino segnato certamente da grandi prove, ma da una grande intuizione, frutto certamente dello Spirito: quella di avviare un servizio a favore delle persone fragili e malate. Insieme a lui, in questo santuario è custodito anche il seme profondo della carità che ha ispirato il suo cammino e l’opera di tanti dopo di lui. Non è un caso che nella vicenda di don Carlo un ruolo particolare sia stato occupato proprio dalla mamma di Gesù, da Maria. E non è un caso la sua scelta di intitolare i Centri da lui aperti a Maria. Questa tradizione è continuata nel tempo, segno di una disponibilità e di una volontà di don Gnocchi di servire nel nome di Gesù e con il sostegno e il conforto di Maria, i piccoli, i poveri e i malati. La pandemia ci ha offerto, tra le tante cose, anche un’occasione importante per riscoprire il valore essenziale della cura come relazione, come amicizia, come disponibilità a realizzare quell’appello, che noi abbiamo voluto sottolineare, tratto dal messaggio di don Carlo: “Accanto alla vita, sempre”. Rappresenta un obiettivo, una sfida, che chiede di unire competenza professionale, ma anche compassione. E credo che tutti coloro che operano nell’ambito di questo servizio particolare all’uomo, questa testimonianza, questo orientamento, questa sottolineatura e questa prossimità di Maria rappresentino un dono particolare che oggi abbiamo voluto con lei condividere, celebrare per poter continuamente rinvigorire e rinsaldare».
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