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Tradizionale incontro prenatalizio all’Istituto “Palazzolo-Don Gnocchi” di Milano nella mattinata di ieri, 22 dicembre, con la celebrazione di una Messa presieduta dall’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini. «Ci sentiamo raggiunti da tre rimproveri - ha detto l'arcivescovo - quello per chi si sente abbandonato e non è vero, perché il Signore è con noi; per chi si sente inadeguato e non è vero, perché il Signore dona la grazia; per chi si sente angustiato e non è vero perché si può pregare e trovare pace».
Per l’ottavo anno consecutivo monsignor Delpini - come tradizione dei Pastori ambrosiani nella sesta domenica di Avvento, festività della Divina Maternità di Maria - ha celebrato la Messa nella chiesa interna dell’Istituto. Un messaggio di speranza espresso ai tanti ai tanti ospiti nelle prime file con le loro carrozzine, al personale medico e infermieristico, ai volontari e ai familiari dei degenti, agli alpini sempre presenti, alla diaconia con le Suore delle Poverelle e le Suore della Carità.
Tutti riuniti nella grande chiesa che, come ha ricordato nel suo saluto di benvenuto il cappellano, don Enzo Rasi, iniziata nel 1938 venne consacrata ben 16 anni dopo, nel 1954. Un rito concelebrato da don Vincenzo Barbante, presidente della Fondazione Don Gnocchi e da uno dei sacerdoti ospiti della struttura. Presenti anche il direttore generale della Fondazione Don Gnocchi, Francesco Converti, la direttrice scientifica Maria Cristina Messa, il direttore dell’Area Territoriale Nord, Antonio Troisi, alla guida anche dell’Istituto, la direttrice sanitaria, Federica Tartarone e rappresentanti delle altre realtà milanesi della Fondazione.
«Si potrebbe dire che gli inviati di Dio ci rivolgono tre rimproveri: il primo è quello del profeta che è mandato per consolare il popolo di Israele che si lamentava e si deprimeva. L’impressione di essere imprigionati in una solitudine senza via di uscita, di essere abbandonati dalle persone da cui ci si aspetta un affetto, una presenza, una sollecitudine, questa impressione di non ricevere, può rendere infelici gli anni della vecchiaia, ma anche gli anni della giovinezza e di tutte le età. Il mistero che oggi celebriamo è la rivelazione di come Dio viene in aiuto alla nostra tristezza e pone fine alla solitudine e all'abbandono. La presenza vicino a noi di Gesù non ha l’aspetto clamoroso e spettacolare che forse ci si aspetta, non risolve tutti i problemi, non elimina tutto ciò che fa soffrire, ma è quello che ci serve».
Poi, in riferimento al turbamento di Maria, l’arcivescovo ha sottolineato l’idea di un’inadeguatezza che "può bloccarci". «Il secondo rimprovero è per chi si spaventa per una vocazione ritenuta troppo alta - ha aggiunto -. Di fronte ai compiti e alle responsabilità che si profilano, forse, anche noi rischiamo di restare bloccati: perciò l’Angelo dice a Maria: “Non temere, perché hai trovato grazia presso Dio”. La risposta alla vocazione alla santità non sta nel fatto che presumiamo di essere capaci e bravi, ma è possibile perché il Signore non fa mancare la sua grazia. Nel nostro atteggiamento rinunciatario, siamo svegliati dalla chiamata alla santità, che si sia giovani o anziani, sani o con tanti limiti. Non adagiamoci nella mediocrità: tutti siamo inadeguati, eppure tutti siamo chiamati».
Infine, il rimprovero - stigmatizzato da san Paolo - per donne e uomini sempre inquieti e angustiati, duemila anni fa come oggi: «La vita è così piena di fastidi, il futuro così incerto e minaccioso, la convivenza così complicata che diventa spontaneo angustiarsi, vivere nelle preoccupazioni, nel non sentirsi a proprio agio», è la riflessione dell’arcivescovo. «Certo, la salute, le condizioni economiche, i rapporti con gli altri sono motivi di angustia, ma la preghiera è la grazia che può trasfigurare l’inquietudine in un abbandono fiducioso, permettendoci di vivere nella gioia e nella pace del Signore. Noi siamo tutti peccatori, ma non è questo che dispiace a Dio, ciò che dispiace è che manchiamo di fiducia in Lui. Perciò chiediamo a Maria di insegnarci la sua fede e la sua strada».
A conclusione della celebrazione - nella quale l’arcivescovo è sceso tra i malati per la comunione - è stato don Vincenzo Barbante ad augurare «un buon Natale carico di speranza, come ci indica il Giubileo e ci ha ricordato l’arcivescovo, perché il nostro tempo e il nostro mondo ritrovino le ragioni della pace e di una convivenza più fraterna». Dal presidente è giunto un invito a guardare al futuro con speranza, tornato poi nel successivo, e altrettanto tradizionale, incontro con i vertici della Fondazione Don Gnocchi: «Questa opera fu voluta da un prete diocesano - ha scandito don Barbante -, ma non è guidata da una Congregazione: è una realtà laica con un carisma forte, grazie all’impegno e alla capacità dei nostri operatori di vivere la cura non solo fornendo prestazioni, ma condividendo un cammino. Ci troviamo ad affrontare le sfide che hanno tutti gli enti non profit, ma guardiamo al presente e al futuro con un certo margine di positività: la sfida è offrire la parola unita a un gesto di carità. La presenza del Vescovo mostra davvero che siamo parte di un’esperienza di Chiesa che chiede nel presente di essere accompagnata da attenzioni concrete. Noi il Natale ce lo giochiamo ogni giorno, quando siamo accanto alle persone che attendono una parola di speranza e anche un po’ di guarigione».
Concetto ripreso anche dal direttore del “Palazzolo”, Antonio Troisi e dal direttore sanitario, Federica Tartarone, che hanno parlato della felice sinergia tra lavoro e missione messa in atto «dal personale proveniente da ogni parte del mondo, dalla comunità religiosa, affiancata anche da Oftal Milano per l’organizzazione dei pellegrinaggi verso Lourdes e del Giubileo dei malati in Duomo dell’11 febbraio». «Oltre 4 milioni di cittadini non si curano, la metà per le condizioni economiche - ha poi rimarcato il direttore generale, Francesco Converti -. La nostra Fondazione deve farsi carico di questa piaga. Questo Istituto può essere la massima rappresentazione di ciò che si può fare prendendosi cura della fragilità con il cuore, anche di quella più difficile come la cronicità. Senza il cuore, la sfida non si vince».
Al termine della mattinata è stato ancora l'arcivescovo, definendo il servizio reso dalla Fondazione «così necessario e così benedetto», a esprimere qualche preoccupazione e auspicio: «*Mi interrogo sulla sostenibilità. Il sistema sanitario reggerà? Come considerano le istituzioni il socio sanitario? Noi abbiamo tante iniziative, ma naturalmente le possibilità vengono anche dal rapporto con l’ente pubblico. Il fatto che la “Don Gnocchi” sia capace di affrontare le sfide, mi fa ben sperare. Ho gratitudine per questo, augurandomi che ci sia una prospettiva anche più sentita sulla centralità dell’attenzione alle persone. La cosa che mi scandalizza è che per fare le armi e la guerra si spendano cifre enormi e poi manchino i danari per la sanità. Il cuore è necessario, perché qui non si tratta solo di un’impresa che deve funzionare bene, ma di una realtà dove i rapporti umani sono decisivi*». E infine un richiamo è all’ormai vicinissimo Giubileo e al suo titolo: «La speranza non è una specie di aspettativa che le cose domani vadano meglio, ma è un affidarsi alla promessa di Dio. Noi credenti abbiamo il dovere di aprire il cuore alla speranza, mentre la società contemporanea, che pensa che la morte sia la fine di tutto, su questo pare reticente. Qui non si viene per andare a morire, ma per passare al compimento della vita, quindi proprio qui la speranza deve essere vissuta e testimoniata. Ognuno si chieda cosa spera e dove sta andando, verso quale cammino siamo pellegrini di speranza».
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