Il progetto - attivato al Centro S. Maria ai Colli -... (Leggi tutto)
«Che cosa avete da dire al mondo dei guerrafondai del pianeta che inventano armi micidiali per distruggere, che impiegano risorse miliardarie per seminare morte, creare mutilazioni a centinaia, voi che, per lavoro, vi prendete cura di una persona per volta, perché recuperi un movimento, faccia funzionare una protesi, si abitui a compensare con quello che gli resta ciò che gli manca a causa di una bomba, o di un incidente, o di una crudeltà?».
La riflessione dell’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, a chiusura della veglia di preghiera per il lavoro (“La vera ricchezza sono le persone. Per una cultura della cura”), nella cappella dell’Opera San Vincenzo, ha dato risposte profonde alle domande emerse dalle testimonianze di operatori impegnati accanto ai più fragili, tra passione per gli ultimi e difficoltà aggravate dalla pandemia.
«Questo, credo, avete da dire – ha detto monsignor Delpini -: che vi prendete cura della ricchezza impagabile che è il valore dell’essere uomo o donna, dell’essere creatura amata di Dio. E che non avete prodotti da vendere, ma tesori come il sorriso di chi riconosce in voi un volto amico, la fiducia di chi affida a voi la sua salute, o il tesoro ancora più prezioso che è la vita».
Tra gli interventi della serata – moderata da Virginio Brivio, collaboratore del Servizio diocesano per la Pastorale sociale e il Lavoro –-, quelli di Maria Concetta La Corte, infermiera professionale all’Istituto “Palazzolo-Don Gnocchi” e di Raffaella Fioravanti, fisioterapista all’IRCCS di Milano della Fondazione Don Gnocchi (nella foto sopra).
«Essere infermiere – ha detto La Corte - implica la capacità di vedere l’umanità dell’altro con amore e apprezzare la diversità e l’individualità di ciascun essere umano. “Prendersi cura” è un approccio che va oltre l’aspetto tecnico della cura, vuol dire mettere in campo competenze professionali e preparazione tecnica insieme al coinvolgimento emotivo e passionale proprio di chi sceglie questa professione, significa colmare quel vuoto esistente tra cura in senso stretto e assistenza alla persona, rendendo umana e motivata la capacità assistenziale. Proprio la fedeltà al messaggio del beato Don Gnocchi reclama e pervade in ogni attività, la centralità della persona, *colta nella sua integralità: viene prima l’uomo e non la sua malattia».
«Parlare di “curare avendo cura”* – ha aggiunto Fioravanti - sottende l’idea che si prenda in cura la persona intesa come unità di corpo e anima, di mente e cuore perché “io sono il mio corpo”, cioè la mia progettualità nel mondo, il mio essere qui e ora, anche malato. La vera salute nasce dalla rappresentazione che abbiamo di noi stessi, come corpo e come mente e noi possiamo essere dei facilitatori, dei mediatori affinchè questa rappresentazione sia reale e funzionale al progetto di vita dei nostri pazienti».
«Questo, credo, avete da dire, voi che, per lavoro e per scelta e per passione, vi prendete cura delle persone – ha concluso l’arcivescovo -: che voi preparate al mondo un futuro desiderabile, che siete protagonisti di un modo di intendere l’economia, la finanza, l’organizzazione del lavoro, la ricchezza e la bellezza che possono rivoluzionare la storia e salvare il pianeta, perché continuiamo a respirare con l’alito di vita che è infuso in noi dal soffio di Dio. E soprattutto voi potete dire che vi curate della sopravvivenza dell’umanità. Dopo che i signori della guerra e i signori delle armi avranno finito di distruggere la terra e di distruggere se stessi, Dio si servirà di voi perché la terra continui a vivere e la speranza a germogliare e i figli degli uomini continuino a sorridere».
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