Allestimenti suggestivi, testimonianze di ragazzi e... (Leggi tutto)
Tra le conseguenze più subdole della pandemia che stiamo vivendo, ci sono i danni e le lacerazioni nella psiche e nell’emotività delle persone. Lo segnalano le task force attive nei Centri “Don Gnocchi”, composte da psicoterapeuti, psicologi di comunità, psicologi clinici, neuropsicologi ed educatori professionali che operano in maniera integrata e affiatata.
«Il nostro lavoro quest’anno si è molto intensificato e diversificato - spiega Stefano Lera, medico responsabile del Servizio di Psicologia Clinica del Centro IRCCS “Don Gnocchi” di Firenze –. L’emergenza ha imposto rapidi cambiamenti di assetti e di attività, come gli isolamenti preventivi per i pazienti ricoverati, il divieto di accesso alla struttura per i famigliari, un aggravio di stress tra gli operatori…».
L'équipe del Servizio di Psicologia Clinica di Firenze e - a destra - il responsabile dottor Stefano Lera
Situazioni che hanno richiesto ai servizi di psicologia un impegno su più fronti, tra cui, novità inedita, le videochiamate tra i famigliari e i pazienti. «Dall’aprile scorso abbiamo garantito oltre 1.200 chiamate - precisa Stefano Mari, educatore professionale incaricato di gestire il servizio nella struttura fiorentina -. In questi frangenti ci rendiamo conto di quanto sia difficile accettare il distacco, soprattutto nel caso di pazienti non autosufficienti, spesso non in grado di rispondere alle sollecitazioni e alle domande. I famigliari ci vedono pertanto come l’unico appiglio per avere informazioni, con le responsabilità che ne conseguono».
Una sorta di supporto psicologico a distanza…
«A volte – sottolinea Marco Borsotti, neuropsicologo e psicoterapeuta del reparto per pazienti con Gravi Cerebrolesioni Acquisite –, dobbiamo diventare interpreti e intermediari nel far comprendere a chi sta a casa la realtà della situazione, a volte istruirlo nella corretta modalità di interazione con il proprio congiunto ricoverato».
Sulla stessa lunghezza d’onda Rosanna Intini, medico psicologo e psicoterapeuta del reparto Gravi Cerebrolesioni Acquisite: «Nei casi di danno neurologico il familiare, proprio perché fisicamente lontano, non si rende conto delle reali condizioni del proprio congiunto. Non ne conosce, ad esempio, i limiti cognitivi e comunicativi conseguenti a un evento quale un ictus, rischiando perciò di interagire in maniera inadeguata: lo stimola a parlare, non capisce perché non risponde o non riesce a decifrarne le risposte… Aumenta così il senso di frustrazione, che a volte diventa anche senso di colpa. Queste situazioni, che prima della pandemia non c’erano o erano limitatissime, sono diventate frequenti, richiedendo un’attenzione e un’accoglienza professionale specifica e rapida. Non secondario, per i suoi risvolti psicologici, anche il timore dei familiari che il paziente si senta da loro abbandonato».
La relazione con i famigliari si fa ancora più complessa nel reparto di riabilitazione pediatrica, dove un solo genitore può rimanere con il bambino ricoverato e non sono più possibili gli scambi con l’altro genitore. Lo sottolinea Chiara Beni, psicologa e neuropsicologa: «Il supporto psicologico in un contesto di questo tipo è fondamentale, non solo per bambini e genitori che non hanno la possibilità di usufruire degli spazi comuni come l’area giochi e hanno un continuo bisogno di sfogo, ma anche per il personale stesso, sottoposto a pressioni maggiori rispetto a situazioni normali, proprio a seguito della frustrazione che stanno vivendo le famiglie».
Paola Canestri, educatore professionale e punto di riferimento per i servizi sociali territoriali, ricorda come «nei casi di dimissioni complesse, sia nell’area adulti che minori, dal momento che l’emergenza sanitaria ha ostacolato la presenza degli assistenti sociali in struttura, il lavoro di rete si è complicato. Da un lato si è reso necessario supportarli negli aspetti comunicativi con gli altri professionisti e con gli stessi pazienti, dall’altro sugli aspetti pratici necessari all’attivazione di progetti assistenziali personalizzati».
Una parte importante del lavoro, è anche quella svolta con gli operatori: Raissa Castellani, psicologa clinica, spiega come siano aumentate le richieste di supporto psicologico al personale per la prevenzione del “burnout”: disagio, ansia, depressione, stress, conflittualità tra colleghi ne sono i sintomi principali. «Anche prima del Covid lavoravo con gli operatori - spiega -. Ora, però, il malessere si esprime nel senso di isolamento, nella solitudine e nell’impotenza. Il mio intervento avviene affiancando l’operatore sul luogo di lavoro, senza ovviamente distrarlo da ciò che sta facendo».
Difficile misurare in termini quantitativi il risultato di un lavoro di questo tipo. «Di sicuro resta il fatto che è un aiuto sempre più richiesto - conclude Stefano Lera -. Le persone ormai sanno che si possono rivolgere a noi e lo fanno con fiducia, come attestano anche i numerosi messaggi di stima e ringraziamento da parte di pazienti e famigliari».
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