Allestimenti suggestivi, testimonianze di ragazzi e... (Leggi tutto)
“Salute: curare i diritti di tutti” è il tema di una tavola rotonda che si è svolta a Trieste nell’ambito della 50esima Settimana sociale dei cattolici italiani e a cui ha partecipato don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Conferenza Episcopale Italiana.
«Come raggiungere l’obiettivo racchiuso nel titolo? Costruendo un sistema in grado di garantire equità a tutti i cittadini…», ha detto don Angelelli (nella foto) in un’intervista rilasciata all’Agenzia Sir.
«L’inserimento del tema della sanità e del diritto alla cura all’interno del programma della Settimana sociale è importante perché si sta sviluppando una tendenza pericolosa - sottolinea il direttore della Pastorale della Salute -. Prima del Covid vivevamo una situazione complessa, ma in qualche modo stabile. Il Covid ha messo in crisi una serie di sistemi, non tanto il Servizio Sanitario Nazionale in sé, quanto la sua dimensione organizzativa, con la conseguenza che questo servizio “universalistico” – ecco dove si colloca il diritto alla tutela della salute – lo è sempre meno. Per un combinato disposto organizzativo e gestionale, le persone che vogliono curarsi non ricevono risposte in tempi accettabili dal Servizio Sanitario Nazionale. Nel 2022 abbiamo sforato i 40 miliardi di out of pocket, a fronte di 4 milioni e mezzo di italiani che non si curano più perché non ne hanno la possibilità».
Sullo sfondo, ci sono i recenti provvedimenti contro le liste di attesa, tra cui l’innalzamento del tetto di spesa con la prospettiva di eliminarlo dal 1° gennaio 2025, con la riduzione del prelievo fiscale sugli straordinari, che secondo don Angelelli non basteranno: «Sono interventi importanti, ma del tutto insufficienti. Questo è un mestiere in cui persone curano persone, ma il PNRR ha privilegiato essenzialmente strutture e strumenti tecnologici. Per fare bene sanità servono professionisti in grado di operare in maniera specialistica e qualificata, ma non devono essere sottoposti a carichi e dinamiche insostenibili perché lo stress lavoro-correlato porta all’errore e non si tratta solo di assumere più personale. Non possiamo immaginare la medicina senza anestesisti, medici di emergenza urgenza, infermieri e medici di base. Intanto i Pronto soccorso scoppiano e i pazienti non vengono curati come dovrebbero esserlo. Occorre aumentare le risorse umane e ridistribuirle in modo capillare sul territorio, con il coinvolgimento dei medici di base».
Il secondo intervento è invece legato a un ripensamento strutturale, una nuova riforma: «Quella del ’78 è datata: il sistema dell’accentramento degli ospedali per acuti non ha funzionato perché ha spogliato il territorio - evidenzia il responsabile Cei per la salute -. Occorre creare una reale rete di continuità tra il momento dell’acuzie e la presa in carico successiva sul territorio, oggi assente tranne in qualche regione del nord. Preoccupano i numeri del pendolarismo sanitario di chi, non trovando sul proprio territorio le cure necessarie, è costretto a spostarsi, anche di 600 chilometri, con enormi costi economici, fisici e psicologici. Stiamo pensando a progetti per avvicinare la cura alle esigenze delle persone. Più in generale, occorre rafforzare – o costruire laddove non esiste – questa rete sui territori__».
Nei giorni scorsi “Crea Sanità” ha reso noto che a 26 milioni di italiani, tutti residenti al sud, non vengono garantiti buoni standard di cure e tutela della salute. «L’assegnazione alle regioni della competenza in sanità ha portato di fatto, a 21 sanità regionali, creando importanti divari - rimarca in proposito don Angelelli -. Se la cosiddetta autonomia differenziata, ormai divenuta legge, costituisce una grande opportunità per colmarli, può comportare anche il rischio di ampliarli ulteriormente. Per questo, chiedo alle strutture sanitarie cattoliche e di ispirazione cristiana di fare, come privato non profit, quello che lo Stato non riesce a fare, ossia creare reti di sostegno sul territorio. Spero che questo consolidamento di collaborazioni tra strutture sanitarie cattoliche diventi un meccanismo virtuoso. Così come nell’ambito della ricerca stiamo promuovendo collaborazioni tra gli IRCCS di matrice cattolica (circa una dozzina, tra i quali anche la Fondazione Don Gnocchi) in modo che possano sostenersi ed aumentare l’efficacia della ricerca».
Nell’intervista al Sir si pone rilievo alla sanità di ispirazione religiosa come di una parte importante del sistema sanitario nazionale: «Tra Aris (ospedalità) e Uneba (socio-sanitario) abbiamo calcolato circa 1.370 strutture con 115mila posti letto e oltre 150mila risorse umane - riflette don Angelelli -. Tutti devono imparare a lavorare meglio in rete, con l’umiltà di confrontarsi con gli altri e di rendersi conto che le cose insieme si fanno meglio. La rete porta un’economia di scala che altrimenti non si potrebbe realizzare, ma non è questo l’obiettivo primario che consiste piuttosto nella possibilità di massimizzare l’effetto testimoniante di quello che si fa. È un problema di identità, perché non facciamo sanità per business, ma per assicurare qualità di cure anche a chi non se la può permettere. Se la rete sanitaria e sociosanitaria cattolica non recupera la propria identità, non è efficace; e se non è efficace è inutile. Quindi, la relazione al centro della cura: è ciò che dobbiamo testimoniare, perché ci differenzia dal resto del sistema».
Un cenno infine al fatto che oltre ai già esistenti Lea (Livelli essenziali di assistenza), ora sono stati introdotti anche i Lep (Livelli essenziali di prestazione): «Lo Stato traccerà una linea - conclude don Massimo Angelelli -. Chi rimane al di sotto lo abbandoniamo o lo mettiamo in condizione di recuperare? Al governo centrale il compito di intervenire laddove non ci sono le capacità e la forza di raggiungere il minimo indispensabile per garantire la qualità delle cure ai cittadini. Occorre creare un modello di equilibrio in cui l’autonomia consenta di fare meglio ma, al tempo stesso, laddove non ci sono le condizioni, lo Stato intervenga perché è suo compito garantire l’equità dei cittadini in forza dell’articolo 32 della Costituzione. Punto di partenza è l’uguaglianza dei diritti; punto d’arrivo l’equità attraverso un maggiore supporto a chi è più svantaggiato».
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