Il progetto - attivato al Centro S. Maria ai Colli -... (Leggi tutto)
Gli ultimi anni sono stati segnati dalla pandemia e dall’emergenza sanitaria. Per molti di noi la pandemia è stata un’occasione di crescita, la paura iniziale si è poi trasformata in consapevolezza e coraggio di cambiare. La necessità di rispondere all’emergenza, soprattutto nelle primissime fasi, ha richiesto uno sforzo di riorganizzazione enorme, sia a livello di spazi e strutture, sia a livello professionale. Un cambiamento repentino che ci ha portato a reinventarci per adeguarci a una situazione nuova e improvvisa, pur mantenendo le nostre competenze, la nostra professione e la nostra etica.
Per noi infermieri è stato un grande cambiamento, perché siamo abituati a vedere il malato nel suo insieme e in tutti i suoi bisogni. L’emergenza ci ha imposto di saltare alcuni passaggi e inventare nuovi modelli organizzativi e ci ha confermato l’importanza di pianificare l’assistenza con le altre figure professionali.
La locandina della Giornata 2022 e - a destra - Maria Concetta La Corte, autrice della testimonianza
Ci siamo dovuti adattare ad una nuova forma di comunicazione sia con il paziente che con i suoi cari, con maggiore empatia, capacità di ascolto e di attenzione. I pazienti non dovevano sentirsi abbandonati, sebbene potessero sentirsi più soli, senza le visite dei propri cari. Gli infermieri, gli operatori, i fisioterapisti, gli educatori, sono stati i loro primi interlocutori.
E proprio tra noi colleghi, ci siamo ritrovati all’improvviso completamente bardati, a riconoscerci per un nome scritto a pennarello sul camice, a lavorare con persone che neanche conoscevamo per via della riorganizzazione interna, per fronteggiare al meglio l’emergenza.
Ebbene, quel punto di partenza è stato un valore che ha rafforzato il nostro modo di lavorare insieme, ha rinsaldato le relazioni esistenti e ne ha fatto nascere di nuove e ci ha aiutati a riscoprirci veramente importanti per i nostri pazienti.
Ci siamo sentiti una squadra e solo una squadra che lavora insieme può vincere. Chi fa l’infermiere sceglie di esserlo, la nostra professione ci rende orgogliosi ogni giorno, ci rende persone consapevoli del fatto che vogliamo fare del bene e vogliamo essere a disposizione del prossimo.
Gli infermieri non sono eroi, sono gli stessi di sempre, professionisti competenti, preparati, responsabili e con un altissimo senso del dovere ed è stato dimostrato durante la pandemia, con i turni massacranti, l’allontanamento dalle proprie famiglie...
Il bagaglio culturale dell’infermiere consiste proprio nel “sapere” quali sono le conoscenze professionali, nel “saper fare” le tecniche infermieristiche e nel “saper essere” grazie alle capacità di relazione e comunicazione efficaci. L’assistenza fornita dall’infermiere al paziente è di natura tecnica, educativa ma soprattutto relazionale.
L’infermiere assiste il paziente in ogni aspetto. Deve mostrarsi sensibile alle condizioni di disagio e sofferenza del paziente, se necessario deve facilitare anche l’espressione della sofferenza. Al tempo stesso deve saper comunicare sicurezza e competenza. L’infermiere riveste un ruolo fondamentale nel gestire gli aspetti emotivi legati alle diverse fasi della malattia relazionandosi con il paziente, con i suoi famigliari e con tutti gli altri professionisti, con empatia ed umanità.
Esiste un’abissale differenza tra il “fare l’infermiere” ed “essere infermiere”, tra il “curare” e il “prendersi cura”: essere infermiere prevede qualcosa di più che la mera esecuzione di prestazioni volte al soddisfacimento dei bisogni della persona malata; essere infermiere implica la capacità di vedere l’umanità dell’altro con amore e apprezzare la diversità e l’individualità di ciascun essere umano. “Prendersi cura” è un approccio che va oltre l’aspetto tecnico della cura, vuol dire mettere in campo competenze professionali e preparazione tecnica insieme al coinvolgimento emotivo e passionale proprio di chi sceglie questa professione, significa colmare quel vuoto esistente tra cura in senso stretto e assistenza alla persona, rendendo umana e motivata la capacità assistenziale.
Proprio la fedeltà al messaggio del beato don Gnocchi reclama e pervade in ogni attività la centralità della persona, colta nella sua integralità: viene prima l’uomo e non la sua malattia.
La malattia è vissuta quasi sempre come una minaccia alla propria integrità professionale e alla propria dignità di essere umano. Il contesto ospedaliero può portare a sentirsi solo un numero tra i tanti degenti di un reparto. In questo caso l’ambiente fa la differenza, l’ambiente inteso come l’infermiere, il fisioterapista, l’educatore, l’operatore sanitario, il medico…
La relazione infermiere-paziente, ma anche la relazione del paziente con le altre figure professionali, è fondamentale affinchè l’assistito non perda mai la percezione di essere una persona.
La motivazione che spinge qualcuno a scegliere una professione di cura è proprio la volontà di aiutare coloro che sono in uno stato di bisogno.
Nell’arco di questo periodo di pandemia è stata data molta enfasi all’importanza della relazione e del contatto fisico che spesso sono venuti a mancare. Il contatto, l’essere a fianco del paziente è uno dei gesti caratteristici dell’infermiere, atti che non derivano dal buon senso, ma fanno parte della competenza e del sapere dell’infermieristica.
Toccare un corpo malato non è come toccare un corpo sano, significa entrare in una relazione particolare con quella persona. Essere vicino alla sofferenza del malato non solo con le parole, ma con il corpo, con l‘ascolto, con il contatto in maniera continuativa, permette di costruire relazioni intense e intime e poche figure professionali hanno questo privilegio.
La vera capacità dell’infermiere è quella di adattare il proprio intervento alla persona che sia ha di fronte, di lasciarsi coinvolgere nella giusta misura nella relazione con l’assistito, in modo che questi possa davvero sentirsi al centro della sua attenzione e del suo impegno professionale.
L’altro aspetto importante di cui bisogna tener conto è la perdita di identità del paziente che spesso viene identificato e confuso con la sua malattia; “l’iperspecializzazione” della medicina ha portato a sezionare il corpo ed a ridurlo ad un assemblamento dei vari organi e apparati. Questo modello che mette al centro la malattia deve virare verso il modello che mette al centro l’uomo nella sua interezza, non solo in termini di aspettative di riacquisizione dello stato di salute ma anche con i sentimenti che una persona in quello stato prova.
Il malato non è una macchina a cui va revisionato un pezzo, ma una persona nella sua unità bio-psico-sociale. Una medicina centrata sul paziente non rinnega la tradizionale medicina che si pone come scopo la diagnosi e il trattamento di una patologia, ma aggiunge la necessità di confrontarsi, con il significato di quest’ultima puramente soggettivo, nel malato che soffre.
La differenza sostanziale è sul piano relazionale e l’infermiere ha una possibilità maggiore di vivere e far vivere alla persona ammalata questa realtà.
Maria Concetta La Corte
infermiera professionale
responsabile del Servizio di Gestione Integrata della Persona
Istituto “Palazzolo-Don Gnocchi” di Milano
(dalla testimonianza alla Veglia diocesana per il lavoro - Milano, 28 aprile 2022)
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