Il progetto - attivato al Centro S. Maria ai Colli -... (Leggi tutto)
«Le vostre testimonianze confermano davvero che ogni persona è come una miniera inesauribile di bene, domande, invocazioni, pensieri, creatività... Dobbiamo sempre metterci in atteggiamento contemplativo di fronte agli altri, senza ripiegarci sui noi stessi e sui nostri problemi, che pure esistono. Le persone fragili, che hanno bisogno di essere assistite, non sono soltanto i terminali di tutta la vostra attività di cura, dell’impegno del vostro Centro, ma ciascuna persona è un principio di bene».
Lo ha detto ieri l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, in occasione dell’incontro con i responsabili e gli operatori del Centro “Girola” della Fondazione Don Gnocchi, con gli ospiti, i familiari e i volontari nell’ambito della visita pastorale nel decanato di Niguarda-Zara.
L’arcivescovo è stato accolto dal presidente della Fondazione, don Vincenzo Barbante, dal direttore generale Francesco Converti e dal direttore del Centro Antonio Troisi. «Siamo contenti di poterla accogliere fra noi nell’ambito di questo percorso di attenzione e di ascolto del territorio milanese - ha detto don Barbante -. La nostra Carta dei Valori rappresenta davvero la rotta che vogliamo realizzare nell’ambito della nostra attività quotidiana, richiamandoci costantemente agli insegnamenti di don Carlo».
Sono poi seguite alcune intense testimonianze.
Sono Giovanna, ho 84 anni (nella foto sotto). Sono nata a Mezzago, in Brianza, e da sposina sono venuta a Milano. Ho fatto la casalinga e la mamma a tempo pieno. Sono appassionata di filosofia, passione nata grazie a mio figlio Luca quando frequentava la terza liceo. A 42 anni mi sono laureata con una tesi sul “De Magistro” di Sant’Agostino.
Nella mia vita ho avuto molteplici esperienze. Ricordo con piacere la relazione con suor Margherita mia insegnante alle elementari e che mi ha seguita fino a quando, per raggiunti limiti d’età, è andata ad abitare a Torino. Ricordo che uno dei temi su cui ci siamo confrontate era quello della fragilità con il quale mi sto raffrontando in questo tempo particolare e delicato della mia vita all’interno di questa struttura dove risiedo da poco più di due mesi.
A volte riconosco con obiettività e razionalità che provo un senso di paura per quello che sarà il futuro; però, nonostante le difficoltà, cerco di affrontare le giornate con dignità. D’istinto mi viene da dire che non vivo bene la mia fragilità. Vorrei essere indipendente, ma devo ammettere che non essendo più totalmente autosufficiente ho bisogno di persone che mi aiutano e dipendere dagli altri è sempre difficile. Qui però ho trovato persone che svolgono il proprio lavoro con professionalità e che ringrazio.
Certe volte mi arrabbio con alcuni di loro perché vorrei che ci fosse più disponibilità ma, dall’altro canto, comprendo di non essere l’unica a cui devono prestare assistenza, perché a tutti devono offrire benessere.
Mi chiamo Laura (foto sopra), sono una donna come tante, impegnata in famiglia, nel lavoro e nella società. Qui al Centro "Girola" della Fondazione Don Gnocchi sono arrivata per mamma Caterina. La provvidenza mi ha portato a bussare alla porta di questa struttura, dove siamo stati accolti con le cure più attente e soprattutto un’umanità straordinaria, che si è fatta carico della nostra fragilità abissale.
La fragilità è un luogo che non è disegnato su nessuna mappa del pianeta, ma nel quale a tutti capita di transitare durante la vita. A volte per un soggiorno passeggero, altre per un tempo molto più impegnativo. Un tempo che abita una dimensione sconosciuta, che bisogna imparare a misurare con strumenti differenti.
La fragilità è una fame che ti divora e ti fa nascere il bisogno di un nutrimento adatto per sconfiggerla. All’inizio senti solo un disagio che non riesci a spiegare, poi man mano che la situazione difficile si fa più presente e invadente, capisci che hai bisogno di dare un nome preciso a quel senso di impotenza e sconfitta che tenta di corrodere il tuo cuore come una ruggine aggressiva.
È il dolore. Il dolore per la fragilità in cui è precipitato il tuo caro. Una fragilità senza ritorno. La sofferenza che colpisce la persona che ami ti rende vulnerabile, patisci profondamente per la tua incapacità ad annientare quella sofferenza. Allora non ti resta che tornare alle riflessioni che questa fragilità porta con sé come un fardello, ma forse anche come via d’uscita. Forse rompere dei meccanismi troppo consolidati della vita può essere un viaggio verso ulteriori conquiste del cuore. Nuove forme di espressione, di creatività e di libertà. Qui al “Girola” stiamo imparando che se alziamo lo sguardo dall’afflizione ci accorgiamo di chi ci sta offrendo un nuovo benessere psicologico, seppure dentro improbabili e sconosciute relazioni.
Dentro questo luogo dell’accoglienza di tante forme di fragilità è possibile trovare altri sguardi. Sguardi più consapevoli, pronti a incrociare il tuo per accompagnarti ad affrontare le paure che inevitabilmente la fragilità porta con sé. Dentro il percorso delle cure stiamo conoscendo tanti operatori, dotati di professionalità e talenti molto differenti, ma con la stessa grinta per mettersi interamente in gioco. Sono persone che ci regalano la speranza, che arricchiscono la nostra attitudine alla comunicazione e ci mettono in relazione con gli altri compagni di viaggio.
Ci aspettano parole diverse da quelle che ci ruminano la mente, se cerchiamo di portare il peso in solitudine. Non sarà che proprio dentro questi incroci di umanità che ci attendono, specialmente qui, troveremo la saggezza di imparare cammini nuovi, da percorrere rigorosamente insieme?
Mi chiamo Chiara (foto sotto), ho 31 anni, vengo da un piccolo paese di 1500 abitanti del Molise e sono un’educatrice. Ho deciso di iniziare il mio percorso professionale quando mi sono relazionata per la prima volta con la fragilità in un incontro scolastico organizzato nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Isernia. Avevo 16 anni e capii subito che avevo bisogno di approfondire quella forte scossa emotiva che partiva dagli occhi e arrivava dritta al cuore.
Dopo la maturità mi iscrivo alla facoltà di scienze dell’educazione e della formazione alla Sapienza di Roma per poi specializzarmi all’università Roma Tre in educatore professionale. Ho concluso il mio percorso di studi nell’estate del 2018 e in autunno ho cominciato a svolgere la mia professione in una RSA di Milano.
Quando si parla di educatori ci si aspetta sempre la figura che si prende cura dei bambini ma nessuno si sofferma mai a pensare di quanto anche gli anziani e i fragili abbiano bisogno delle volte di una carezza o di spensieratezza nei momenti in cui per i famigliari non è possibile.
Quella carezza che non è sempre un gesto solamente fisico, per me “carezza” significa anche ascolto, un caldo sorriso, un “come stai oggi?”, una stretta di mano, cantare insieme una canzone, far entrare il sole dalla finestra, esserci.
Ho imparato tanto sia per quanto riguarda la mia professione, sia per quanto riguarda la mia sfera emotiva. La gioia più grande di questo lavoro è vedere che diventi un punto fermo, una valvola di sfogo e l’abbraccio sicuro per qualcuno. Il sorriso e la commozione negli occhi che incrocio quotidianamente mi riempie di quell’affetto genuino di cui chiunque (soprattutto chi vive lontano dalla famiglia) avrebbe bisogno.
Essere fragili non è affatto un ostacolo, la fragilità non deve essere un peso. Ognuno di noi tende a nascondere le proprie, io stessa lo faccio continuamente. Con l’esperienza e il passare del tempo mi rendo conto che bisogna prendersene cura e valorizzarle, perché è solo cosi che possiamo trattenere la luce di quel tesoro che costudiremo per sempre!
Mi presento: il mio nome è Sara (foto sopra) e ho 23 anni. Ho avuto l’opportunità di conoscere la realtà degli anziani nel 2019, quando mia nonna è stata ricoverata in uno dei reparti del Centro “Girola”. È da questo momento che è iniziata la mia attività di volontariato in questa struttura.
Il primo anno accompagnavo gli ospiti in chiesa per la celebrazione della Messa, mi intrattenevo con loro con lunghe chiacchierate in cui riemergevano le storie e i ricordi del loro passato e a volte cantavamo e ballavamo insieme. Io ero molto entusiasta di poter stare accanto a loro, di svolgere numerose attività e soprattutto ciò che mi emozionava e mi faceva battere il cuore era vedere sul loro volto il sorriso e la felicità.
Poi la pandemia ha annullato le interazioni sociali, le attività ricreative e le celebrazioni. Appena è stato possibile, abbiamo ricreato delle attività a distanza o dei momenti di incontro attraverso le videochiamate. Ora che siamo tornati alla normalità ciascuno di noi ha ripreso il suo servizio. C’è chi si dedica al laboratorio manuale, chi ad accompagnare alla celebrazione della Messa o ai momenti di festa, chi fa attività al piano di degenza e c’è chi pone l’attenzione alla singola persona facendo compagnia.
Durante la mia attività vedo alcuni ospiti che nonostante le loro fragilità sono capaci di sostenere l’altro e di aiutare. C’è chi nonostante faccia fatica a muovere il braccio fa segno all’altro di girare la pagina per leggere il testo della canzone, c’è chi fa fatica a muoversi autonomamente ma canta le canzoni a memoria facendo da “capo banda” di tutto il gruppo, c’è chi si sente stanco o triste ma viene incoraggiato dal compagno di stanza a partecipare alla celebrazione della Messa o alle attività proposte e infine c’è chi è molto fragile e non riesce a partecipare, ma nonostante questo c'è sempre chi scambia una parola con lui, o gli regala un saluto o una carezza, costruendo una solidarietà collettiva. Questo permette agli ospiti di mantenere attiva la loro mente e di aumentare il benessere, perché si può essere felici a qualsiasi età.
Come volontaria, ma soprattutto come persona, ogni volta che vengo al “Girola” imparo qualcosa. Per noi volontari è importante far sentire gli ospiti come se fossero “a casa”: una parola in più, una stretta di mano, uno sguardo o un abbraccio può aiutarli a superare la loro fragilità, perchè a volte i piccoli gesti riescono a far battere il cuore più di qualsiasi altra cosa.
Al termine della visita, monsignor Delpini ha ringraziato tutti i presenti «a nome della comunità ecclesiale, per il bene che fate, attraverso il vostro lavoro e la vostra professionalità al servizio degli altri. Vi ringrazio molto per queste testimonianze, che rivelano quanto pensiero, quante emozioni, quante domande e difficoltà ci sono nella storia umana. La relazione con Dio semina un principio di speranza anche nel momento drammatico della malattia e del dolore, perciò io sono qui per darvi la benedizione del Signore e per ringraziare tutti voi».
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