Il progetto - attivato al Centro S. Maria ai Colli -... (Leggi tutto)
Il prossimo 28 febbraio ricorrerà il 68esimo anniversario della morte di don Gnocchi, avvenuta alla Clinica Columbus di Milano nel 1956. Don Carlo aveva solo 53 anni e volle porre l’ultimo sigillo a una vita donata fino all’estremo: regalare i propri occhi ai suoi mutilatini, ultimo atto d’amore, ennesima provocazione a una società spesso lenta e sonnacchiosa davanti ai bisogni e alle sofferenze dei più indifesi. La donazione delle cornee, fuorilegge in quegli anni, sollevò grande clamore non solo tra l’opinione pubblica, ma anche nel mondo dei giuristi e dei teologi: fu grazie a don Gnocchi che il Parlamento italiano varò le prime norme sui trapianti d’organo, mentre sul versante morale, Papa Pio XII, nell’Angelus della domenica successiva alla morte, avallò il generoso gesto, ponendo a tacere qualsiasi osservazione contraria o dubitativa.
Questa la testimonianza di quei giorni, resa qualche anno dopo dal professor Cesare Galeazzi (1905-1979, nella foto sotto), insigne oculista e allora direttore dell’Oftalmico di Milano.
Negli anni immediatamente successivi alla guerra, venni ad apprendere da un giornale che un sacerdote, don Carlo Gnocchi, ex-cappellano degli alpini durante la disperata campagna bellica in Russia e di cui mai avevo sentito parlare, aveva dato vita a una iniziativa per soccorrere i bambini mutilati per causa di eventi bellici; la notizia proseguiva dicendo che l'illustre professor Streiff, clinico oculista di Losanna e vecchio amico mio, aveva gratuitamente operato due bambini dell'Opera di don Carlo.
La notizia mi indispose. Scrissi immediatamente a don Carlo Gnocchi dicendogli molto energicamente che mi sentivo offeso come italiano e come oculista: «Lei, reverendo, ha intrapreso una bellissima fatica, ma si dimentica evidentemente, che gli oculisti italiani, senza falsa modestia, in tema di chirurgia oculare non sono inferiori ai loro colleghi esteri. Trattandosi inoltre del dramma della fanciullezza italiana colpita dal furore bellico, desidereremmo affiancarla nella sua benemerita iniziativa: se crederà di servirsene, conti sull'Istituto Oftalmico di Milano, che ho l'onore di dirigere, e sulla mia opera di chirurgo». Due giorni dopo, all'uscita della sala operatoria, mi fu detto che un sacerdote mi attendeva da oltre un'ora. Mai dimenticherò l'incontro: su di un viso esprimente intelligenza, volontà, bontà, la luce di due grandi occhi azzurri, di un azzurro incredibile. Mi tese ambo le mani: «Caro professor Galeazzi, lei ha ragione, ma io non ho torto!».
Don Carlo sottolineò le enormi difficoltà che aveva per il ricovero dei suoi ragazzi negli ospedali a causa del mancato pagamento degli stessi da parte dell'Ente di assistenza postbellica, che non disponeva di finanziamenti sufficienti. Da parte mia non ci furono dubbi: «Don Carlo - risposi - sono onorato e felice di mettermi personalmente a sua disposizione per tutte le cure mediche e chirurgiche di cui hanno bisogno i suoi piccoli in campo oculistico. E anche se l'Ente di assistenza non dovesse pagare, non ci saranno problemi...».
Non occorsero altre parole: ci guardammo negli occhi e il reciproco sguardo sancì un'intesa che divenne rapidamente una profonda amicizia. Nè poteva essere diversamente, perché così fu infatti con tutte le persone che ebbero la ventura di incontrare quest'uomo straordinario. Considero oggi il mio incontro con don Carlo fra i pochissimi veramente importanti della mia vita.
La nostra fu un'amicizia, se vogliamo, anche strana: fatta e intessuta di colloqui frequenti, ma sempre brevissimi, perchè non c'era tempo per le chiacchiere; molte, molte telefonate, l'intesa sempre pronta e perfetta e, dentro, mi è rimasto il suono particolare e suadente della sua voce, che al di là dell'affetto sempre mi impose un rispetto profondo. Espresse la sua ineguagliabile personalità nel sacerdozio, ma nella sua troppo breve vita sarebbe comunque stato, come fu, un grande protagonista.
Da allora in poi, operai sempre personalmente i molti poveri piccoli dilaniati dagli eventi bellici. Molte volte, purtroppo, provammo il dolore della nostra impotenza tecnica a risolvere il caso, ma fummo anche molto spesso premiati per il successo ottenuto: anche se il recupero funzionale fu sovente solo parziale o addirittura modesto ci soddisfece e ci inorgoglì. La felicità di questi ragazzi, trasformati da ciechi a veggenti, era la nostra e quella di don Gnocchi che, incredibilmente impegnato su fronti molteplici, seguiva di persona o telefonicamente il decorso dei suoi piccoli protetti: furono veramente i suoi figli!
Sottoposto ad una fatica disumana e già lentamente minato dal male, sappiamo che il suo destino fu poi rapido, cristianamente e coraggiosamente sofferto. Andai spesso a trovarlo nella clinica dove era ricoverato: parlavamo dei suoi ragazzi, li ricordava tutti per nome e mi diceva, felice, dei loro progressi dopo l'intervento subìto.
Improvvisamente, una domenica, le 2 del pomeriggio, suona il telefono. Era una suora della clinica Columbus: «Professore venga subito, don Carlo ha chiesto di lei». Quando lo vidi, lui giaceva nel letto, sotto la tenda ad ossigeno, il viso esangue, le belle mani stanche e bianche: «Cesare, ti chiedo un grande favore, non negarmelo: fra poche ore io non ci sarò più: prendi i miei occhi e ridona la vista a uno dei miei ragazzi, ne sarei tanto felice. Parti subito per Roma: là nella mia casa c'è da pochi giorni un bel ragazzo biondo e poi forse anche un altro, mi hanno detto che un trapianto di cornee potrebbe farli rivedere: avrei già dovuto parlartene, parti subito, promettimelo, io ti ringrazio. Addio...».
Non dimenticherò mai quegli attimi di stravolgente commozione: non ricordo nemmeno che cosa dissi, so che piangevo e so che promisi... Ricordo che lo baciai in fronte. Uscii frastornato, pieno di paura per l'incombente gravoso impegno così solennemente assunto. Non sapevo nulla di questo ragazzo, ero spaventato e commosso. Partii subito per Roma angosciato dal dubbio. Se l'intervento, ove possibile, non mi fosse riuscito? Avrei fatto in tempo a rientrare da Roma con il ragazzo? Don Carlo palesemente agonizzava.
La mattina dopo, di buon ora, sono alla casa dell'Opera di don Carlo; chiedo del ragazzo, stentano ad individuarlo, poi lo riconoscono in Silvio Colagrande, di anni 12. Me lo portano in osservazione: esiti di ustione gravissima, cornee opache in misura sub-totale; certo un caso molto difficile, ma ancora in limiti di operabilità. Mi sento già più tranquillo.
Dispongo per l'immediata partenza per Milano del giovane e richiamo l'ospedale affinchè tutto sia pronto per operare in qualsiasi momento. Preannuncio il mio rientro, con la notizia che ormai è già di pubblico dominio. Del resto, fin dal mio arrivo a Roma ero stato aggredito da giornalisti e fotografi.
In alto, Silvio e Amabile in una foto d'epoca e nel giorno della beatificazione di don Carlo, il 25 ottobre 2009, quando scoprirono in piazza Duomo al momento della proclamazione l'urna con il corpo del beato
Poco prima di ripartire mi giunge la triste, ma purtroppo attesa notizia: don Carlo è spirato. Eterno, ansioso viaggio di ritorno: quasi sgomento pensavo alla prova che mi aspettava: come un principiante andavo ripetendomi i tempi dell'intervento. Ma se il colpo di trapano, per il prelievo del disco da innestare, per l'emozione non mi fosse riuscito? E tutti quei vasi sulla cornea? Ci sarà emorragia? Il lembo resterà trasparente?
Pensavo al mio Aiuto, dottor Celotti, che in quel momento stava enuclendo i bulbi dal volto spento di don Carlo e ringraziavo Dio per le circostanze che mi avevano risparmiato l'orribile compito. Ero preoccupato per l'esito dell'intervento. Poi, a tratti, mi rasserenavo e dicevo: "Don Carlo mi aiuterà". Successivamente venni a sapere delle difficoltà frapposte a Celotti dalla polizia, a causa della legge italiana di allora, che non permetteva il prelievo di cornee da un defunto.
La mattina dopo, nel momento di eseguire l'intervento, mi sentivo stranamente tranquillo: all'angoscia era succeduta una sorte di fredda determinazione. Ad un impegno assunto con un “santo” agonizzante non v'erano alternative ed era in me, lo confesso, anche una punta di orgoglio.
Per il secondo trapianto era pronta una giovane ragazza, Amabile Battistello di 17 anni, l'unica resasi disponibile il giorno prima. Arrivo in ospedale, vedo i giornalisti fermi all'ingresso e li evito entrando dall'ambulatorio. La camera operatoria è pronta: vi è un silenzio particolare, è una giornata diversa. L'induzione, l'anestesia... «Può cominciare, professore...», la voce amica di Laura, la mia anestesista.
Sono sereno: i tempi preliminari evolvono senza complicazioni e arriviamo al momento cruciale. Un attimo, ma solo un attimo di commozione: ho nelle mani e ancora fisso l'occhio azzurro di don Carlo che non c'è più. Ma mi aiuta, la mano non trema, il giro di trapano è sicuro... L'insediamento della cornea donata risulta facile: la pupilla è centrata, il cristallino perfettamente trasparente, il ragazzo vedrà.
Anche il secondo trapianto non subì complicazioni. Il lembo innestato venne protetto da un dischetto di pelle d'uovo sterilmente preparato e tenuto in sito da due anse di filo incrociato. Il decorso post-operatorio fu ottimo per entrambi i pazienti, avvolto solo da un clima di grande clamore per quanto era avvenuto.
I due ragazzi furono visitati anche dal cardinale Montini, successivamente divenuto Papa Paolo VI. Per qualche anno li rividi periodicamente: la loro situazione visiva andò progressivamente migliorando, ora da tempo li ho persi di vista. So che la ragazza si è sposata ed è madre, mentre il giovane esercita la professione di interprete. E vedono con gli occhi di don Carlo.
Cesare Galeazzi
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