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Nato a Caltagirone nell’anno in cui moriva don Carlo, Aurelio Roccuzzo, fisioterapista, ha trascorso la propria carriera lavorativa nella Fondazione Don Gnocchi, prima nella struttura di Pozzolatico e poi a Firenze. Alle soglie della pensione, dopo 38 anni di servizio, apprezzato e ben voluto da tutti i colleghi che gli hanno dedicato di recente una festa a sorpresa, sfoglia l’album dei ricordi.
«Dopo il diploma e il servizio militare mi sono iscritto a giurisprudenza a Catania – ricorda – ma ho capito presto che non ero fatto per codici e norme. A Caltagirone c’era un presidio ospedaliero con un servizio di riabilitazione e una scuola regionale a fini speciali che preparava per diventare fisioterapisti e così mi sono iscritto perché mi sentivo più portato per un lavoro di relazione con gli altri, in particolare di chi aveva più bisogno».
All’epoca non esisteva ancora il corso di laurea di fisioterapia, divenuto obbligatorio negli anni ’90, e per diventare fisioterapisti c’erano scuole che generalmente facevano capo a grandi ospedali locali.
Aurelio Roccuzzo, fisioterapista al Centro Irccs "Don Gnocchi" di Firenze
«Nell’estate del 1981 mi sono diplomato – racconta – e ho maturato la decisione di trasferirmi in una città del nord; avevo un amico studente che stava a Firenze e così mi sono trasferito qui e non mi sono più spostato. Per qualche anno ho lavorato come libero professionista, poi ho conosciuto il Centro "Don Gnocchi" di Pozzolatico grazie a un corso di formazione intensivo sulle distrofie muscolari. Il 1° aprile 1986 ho iniziato a lavorare per la Fondazione, che all’epoca curava con proprio personale le attività riabilitative di presidi territoriali come a Ponte a Niccheri, Greve in Chianti e Tavernelle. I miei primi pazienti erano affetti da distrofia muscolare o da patologie di natura neurologica, poi nel tempo sono aumentati i pazienti amputati che dovevano essere rieducati al cammino e all’uso delle protesi e ho iniziato ad interessarmi a questo aspetto, fino a quando, sul finire degli anni ’80, abbiamo strutturato un vero e proprio servizio per loro, con la collaborazione dell’Ortopedia Pratese, che ancora oggi lavora con noi».
Uno scorcio del Centro "Don Gnocchi" di Pozzolatico, nel comune di Impruneta, lasciato nel 2011
Negli ultimi anni il mondo della riabilitazione ha subito trasformazioni molto profonde: da “cenerentola” della sanità alla storica risoluzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del maggio scorso che ne sancisce l’importanza strategica nelle politiche sanitarie degli Stati. In maniera sempre più decisa si è fatta strada la tecnologia e oggi in quasi ogni palestra esiste un dispositivo robotico. Da lavoro per solisti, è diventata gioco di squadra, con l’emergere di altre figure come i logopedisti o i terapisti occupazionali, ma la componente umana non è mai venuta meno e la capacità di entrare in relazione empatica con il paziente resta la chiave del successo per ogni intervento riabilitativo riuscito.
«Ricordo il caso di pazienti amputati bosniaci – racconta Aurelio – provenienti dalle zone di guerra negli anni ’90: ragazzi che erano rimasti mutilati dagli ordigni bellici, come i famosi mutilatini di don Gnocchi e lì i traumi non erano solo fisici, ma anche psicologici e non si trattava solo di rimetterli in piedi con le protesi, ma di aiutarli a ricostruire un’esistenza spezzata. Non dimenticherò mai un ragazzo albanese, Bekim, di Skutari: era arrivato da noi a 19 anni e aveva perso le gambe e una mano quando era molto piccolo, a seguito di un incendio. Era arrivato da noi tramite suore italiane che lo avevano accudito. Gradualmente, viste le sue capacità e la sua forza di volontà, lo abbiamo riabilitato e fornito di protesi. Ricordo la prima volta che si è messo in piedi nella sua vita, nell’officina ortopedica di Pozzolatico: eravamo soli io e lui, entrambi emozionati, incapaci di parlare perché avevamo un nodo in gola. Siamo rimasti in silenzio e quello è stato il momento più emozionante di tutti questi anni di lavoro».
In anni più recenti, impossibile non citare la medaglia d'oro olimpica Ambra Sabatini: da amputata per un incidente stradale a campionessa alle Paralimpiadi di Tokyo, un percorso che Aurelio ha seguito molto da vicino.
Aurelio con la medaglia d'oro olimpica Ambra Sabatini e - a destra - una seduta nella palestra per amputati
Un bilancio di questi anni? «La relazione con i pazienti e i colleghi è stata per me motivo di continuo arricchimento lavorativo e umano, ma quello che resterà per sempre dentro di me è la vicinanza e l’affetto delle tante persone con cui ho condiviso il percorso di rinascita: con loro sono cresciuto, ho affrontato successi e difficoltà e ne esco immensamente ripagato».
Cosa dire oggi a un giovane fisioterapista che per la prima volta si affaccia a questo lavoro? «Mettiti nei panni dei tuoi pazienti – esorta Aurelio –, crea relazioni solide e metti a loro disposizione le tue competenze. Le competenze te le puoi costruire se ci sono delle lacune, la relazione no, te la devi sentire. Senza essere eroi, sentiti questa missione dentro: se quello che fai lo senti tuo e ti piace, aiuti te stesso a crescere e l’altro. Aggiornati, cresci professionalmente e se vieni al lavoro volentieri sei già oltre metà dell’opera».
Quasi un passaggio di consegne alla nuova generazione di fisioterapisti, insieme alla passione per un lavoro che, come diceva don Carlo, intende “recuperare e intensificare, la vita che non c’è, ma ci potrebbe essere”.
La festa dei colleghi del Centro per Aurelio Roccuzzo, ormai prossimo alla pensione
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