Approvati e finanziati i nuovi progetti di accompagnamento... (Leggi tutto)
Il punto di partenza è semplice, ma non scontato: «Una realtà come la nostra, che si occupa di assistenza alla fragilità fisica e sociale e affronta quotidianamente la sfida di rendere accessibili le migliori tecniche alla fasce della popolazione con le più diverse fragilità, non può ignorare il fatto che nel mondo le persone con disabilità spesso vivono ancora in condizioni di difficoltà e di affanno e che in Paesi in cui l’esistenza quotidiana è oggettivamente complicata, le persone con una disabilità hanno ancora più difficoltà del resto della popolazione».
Don Vincenzo Barbante (nella foto, durante l'inaugurazione di un nuovo reparto in Bosnia-Erzegovina), presidente della Fondazione Don Gnocchi, presenta con questa chiara semplicità le ragioni di un impegno forte e antico nella cooperazione allo sviluppo. La Fondazione Don Gnocchi insieme a OVCI (La Nostra Famiglia) e ad AIFO sono fra le realtà italiane storicamente più impegnate sul fronte della disabilità, nell’ambito della cooperazione e hanno promosso il convegno internazionale dal titolo “Essere persona. La disabilità nel mondo: quali diritti, inclusione e riabilitazione?”, che si terrà a Milano il 5 e 6 aprile prossimi.
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Perché il convegno del 5-6 aprile, con quale obiettivo?
Partiamo da una considerazione generale - continua don Barbante (nella foto) - una realtà come la nostra, dedita all’assistenza della fragilità fisica e sociale, che affronta le sfide per promuovere quest’attenzione e per rendere accessibili i servizi alla fasce che hanno una fragilità sociale, non può ignorare che nel mondo le persone con disabilità, sono in affanno. Ci sono in questo momento molte ragioni che rendono difficile a molte fasce della popolazione vedere realizzata la propria esistenza, figuriamoci per chi ha una disabilità o dei traumi.
Il nostro impegno è portare avanti questa attenzione, sia per ragioni di valorizzazione del nostro know how, sia in chiave culturale interna, chiamando noi stessi a renderci sempre più conto dell’insieme dei problemi gravi e importanti. Molti nostri operatori partecipano a missioni di cooperazione all’estero, fornendo la loro competenza e professionalità, imparando a condividere le esperienze di questa realtà, e le riportano a casa, contagiando positivamente l’ambiente. Si creano rapporti umani, qualcuno chiede di poter tornare e le proprie ferie… sono decine le persone coinvolte.
Perché organizzare il convegno insieme ad OVCI e AIFO?
Il tipo di sfida o provocazione che ci arriva dal mondo ci mette di fronte a bisogni grandi e dedicati, non può essere affrontato con la presunzione che noi possiamo risolvere da soli i problemi del mondo. È una gioia vedere che anche altri lavorano nello stesso ambito, con lo stesso nostro entusiasmo, e insieme siamo chiamati a condividere esperienze: per un arricchimento, per la condivisione delle fatiche culturali e organizzative, per la necessità di trovare risorse, per un interscambio di esperienza e poi per il desiderio di portare tutto ciò in casa nostra, perché – ripeto - non è possibile che una realtà come quella italiana chiuda gli occhi nei confronti di chi ha bisogno.
Siamo da poco rientrati da una missione in Mynamar, per preparare il terreno per un nuovo progetto: dal punto di vista della riabilitazione non dico che siamo all’anno zero ma poco ci manca. Tornando alla domanda, credo che occorra superare il rischio dell’autoreferenzialità, imparare di più a stimarsi a vicenda, collaborare e portare avanti insieme anche nel nostro Paese un discorso culturale forte.
Il fatto di organizzare un convegno in Italia è il desiderio di dire che l’attenzione alla disabilità nella cooperazione non è una “cosa nostra”, non ci è stato delegato un ambito… Allo stesso tempo è il desiderio di esprimere un’identità che ci deriva dai nostri valori cristiani, che poi sono valori condivisibili da tutti perché umani: mostrare che si può passare dall’idealismo alla realtà, che le nostre non sono illusioni ma progetti concreti, condivisione di vita, andiamo in queste realtà e non gestiamo cose nostre, ci mettiamo a fianco delle realtà locali, forniamo know how per 5-10-15 anni e poi andiamo via facendo in modo che l’opera prosegua.
Cosa vi accomuna con OVCI e AIFO?
Il desiderio di operare portando avanti esperienze comuni. Penso in particolare a OVCI, con cui abbiamo un progetto comune in Ecuador, da molti anni. Siamo in due realtà diverse del paese, ma il progetto è comune, ci sono forme di dialogo quotidiano e operativo avviate, è un percorso che ritengo assolutamente positivo. Muoversi insieme è molto importante, ci si confronta…
Qual è invece il tratto caratterizzante dell'ONG della Fondazione Don Gnocchi?
Il servizio alla disabilità in particolare nella riabilitazione, il nostro impegno è soprattutto a questo livello. Mettiamo a disposizione l’esperienza di pratiche, protocolli e strumentazione al servizio dell’attività riabilitativa, dalla riabilitazione ortopedica a quella neurologica, dai disturbi del comportamento all’amputazione. Riabilitazione è accompagnamento per favorire l’inclusione sociale, anche per chi si trova condizioni di fragilità sociale. Nel mondo ci sono ancora persone con disabilità tenute in casa e che a parte le cure non hanno integrazione sociale.
L’attività riabilitativa è di inclusione, è fare in modo che possano non solo veder riconosciuta la loro condizione di fragilità, ma anche la loro dignità, una condizione in cui abbiano la possibilità di essere non solo oggetto di cure ma anche soggetti di cure…
Oggi il primo operatore dell’assistenza è l’assistito stesso, chiamato ad essere protagonista. Chi lo assiste è uno che cammina con lui. Oggi il concetto è che la riabilitazione non coinvolge solo il terapista. La cura copre tre aspetti, fisico, psicologico, sociale: bisogna coinvolgere la famiglia…
Come nel vostro lavoro quotidiano avete recepito e declinato le novità di approccio derivanti dalla Convenzione ONU sulle Persone con Disabilità?
Nel momento in cui le grandi organizzazioni affrontano questi temi, lo fanno su una scala che tiene conto delle sensibilità culturali mondiali, con uno sforzo di messa in comune di valori molto ideali. La questione è offrire un contributo concreto. Perché il rischio, con questi pronunciamenti apprezzabilissimi è che restino sulla carta. Il nostro impegno è trasformarli in percorsi concreti, il tentativo di fare sì che questi concetti - che a un certo punto si sono cristallizzati in una Convenzione ma che esistevano già, non è che sono nati dall’oggi al domani – possono essere realizzati pur in mezzo alle difficoltà oggettive, anche in posti veramente molto compromessi, perchè in alcune realtà è davvero difficile arrivare a sera anche per chi non ha una disabilità.
Quali passi ancora sono auspicabili guardando al futuro?
Abbiamo due progetti nuovi in vista e altri contatti. Per una realtà come la nostra la sfida è crescere. Crescere nella capacitò di mettere a disposizione la nostra esperienza e condividere una parte delle risorse con queste realtà. Abbiamo un riscontro positivo da chi ci sostiene: sapendo della nostra Ong e dell’impegno nei Paesi più poveri del mondo ci sostengono con ancora più affetto, questo ci tengo a sottolinearlo per dire di una identità italiana che sa essere capace di attenzione. L’Italia è anche altro.
Qual è il carisma di don Gnocchi e la sua attualità nell’oggi?
Don Carlo aveva molto forte questo concetto della “restaurazione dell’uomo”, del fare in modo che chi è stato colpito da qualcosa che lo ha portato alla disabilità dovesse ritrovare la sua dignità ed essere aiutato con quanto di meglio la scienza e la tecnologia hanno elaborato per rientrare pienamente nella società. Aveva già in mente un concetto di inclusione, esser nuovamente protagonista della propria vita, le sue strutture le chiamava “collegi” che sono luoghi in cui ci si prepara a entrare nel mondo, non luoghi di segregazione o di ritiro dal mondo. Offrire a tutti quanto di meglio c’è, tutto ciò che l’innovazione offre: questo non significa solo macchinari ma anche protocolli riabilitativi, percorsi, metodologie riabilitative innovative, fare in modo che i trattamenti terapeutici frutto delle più recenti sperimentazioni vengano condivisi e siano accessibili anche lì.
(intervista di Sara De Carli per Vita.it)
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