Il progetto - attivato al Centro S. Maria ai Colli -... (Leggi tutto)
C’è anche il contributo della Fondazione Don Gnocchi - in particolare del professor Sandro Sorbi, direttore scientifico dell’IRCCS "Don Gnocchi" di Firenze e della professoressa Benedetta Nacmias, docente di neurologia dell’Università di Firenze e responsabile del NGR Lab - Laboratorio congiunto IRCCS “Don Gnocchi” di Firenze e Università degli Studi Firenze, di Neurogenetica in Riabilitazione - nel più grande studio mondiale per numero di soggetti coinvolti di sequenziamento dell'esoma sull'Alzheimer, pubblicato nei giorni scorsi dalla rivista internazionale Nature Genetics.
Lo studio, che ha coinvolto complessivamente più di 32mila individui, di cui la metà circa con malattia di Alzheimer e l’altra sani, è stato condotto dall'University Medical Center (UMC) di Amsterdam (Paesi Bassi), dall'Istituto Pasteur di Lille e dall'Università di Rouen Normandie, (Francia) e ha portato alla scoperta di due nuovi "geni dell'Alzheimer" e alla prova di un terzo. Oltre al “Don Gnocchi” di Firenze, altri prestigiosi IRCCS italiani hanno partecipato alla ricerca e alla redazione dell’articolo: la Fondazione IRCCS Ca' Granda - Ospedale Policlinico di Milano, l’IRCCS Santa Lucia di Roma, il Policlinico Gemelli di Roma e l’Istituto Neurologico Besta di Milano.
Benedetta Nacmias e Sandro Sorbi, direttore scientifico dell'IRCCS "Don Gnocchi" di Firenze
L’Esoma è la parte del genoma attiva, quella cioè che codifica le proteine, e le sue mutazioni determinano oltre il 90% delle anomalie e delle patologie congenite. Il suo sequenziamento consiste nel determinare la composizione di tutti gli esoni di un determinato soggetto malato; il confronto di questa sequenza con una di riferimento priva di alterazioni, permette di individuare la mutazione che ha causato la malattia.
«L’importanza di questo studio – commenta il professor Sorbi – oltre che per il numero di pazienti coinvolti, consiste nel fatto che per la prima volta abbiamo indagato in maniera molto approfondita l’esoma, cioè laddove i geni producono le proteine, e abbiamo identificato due geni dell’Alzheimer, le cui mutazioni sono causative della malattia: non semplici fattori di rischio, ma elementi di causa-effetto».
Già si era a conoscenza che rare mutazioni genetiche dannose in cinque geni potevano aumentare il rischio di contrarre l’Alzheimer. Questo studio invece fa un deciso passo avanti, mostrando che le mutazioni dannose in due di questi geni possono quasi sicuramente sviluppare la malattia. Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che le mutazioni dannose in un sesto gene, porteranno probabilmente ad un aumento del rischio. In sintesi, un'alterazione genetica in uno qualsiasi di questi geni può portare a un aumento significativo del rischio di malattia di Alzheimer.
Oggi si stima che il 60-80% del rischio di malattia di Alzheimer possa essere spiegato da fattori genetici, mentre l'esordio precoce della malattia in soggetti al di sotto dei 65 anni, aumenta il rischio a oltre il 90%. Pertanto, utilizzando il genoma unico di ogni persona, potrebbe essere possibile identificare, prima che si manifestino i sintomi, gli individui con un aumentato rischio di malattia, consentendo l'applicazione tempestiva di strategie di trattamento personalizzate.
«Questo studio innanzitutto conferma la nozione che l’Alzheimer è una patologia che dipende da cause molto diverse – aggiunge Sorbi -: ci sono caratteristiche cliniche comuni, ma l’origine può essere diversa da paziente a paziente e quindi questo ci porterà ad indagare le possibili cure nel campo delle terapie genetiche, cioè terapie “su misura” per gruppi diversi di pazienti: da qui arriveranno risposte molto importanti alla cura dell’Alzheimer».
Una ricerca così complessa ha comportato l’analisi matematica di milioni di dati e soprattutto uno scrupoloso lavoro di arruolamento di pazienti idonei e questo è stato il ruolo del network italiano di Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico che hanno lavorato a questa ricerca.
«Dovevamo effettuare un’analisi genetica di soggetti con caratteristiche tali che, pur senza disporre di una diagnosi precisa, li rendessero con buona probabilità affetti da Alzheimer – ha spiegato il professor Sorbi – e per questo sono state fatte ricerche molto accurate, con esami diagnostici approfonditi, con un margine di errore che poteva essere molto alto e che avrebbe potuto inficiare i risultati finali. Avevamo però bisogno di avere soggetti con caratteristiche tra loro comuni; in seguito abbiamo fatto dei prelievi di sangue e l’analisi genetica».
Siamo incamminati verso un futuro senza l’Alzheimer? Forse è presto per dirlo, ma sembra proprio che la strada della genetica sia quella giusta, che ci darà nel tempo tante risposte per la cura di questa malattia ancora misteriosa che colpisce oltre 55 milioni di persone nel mondo (630 mila soltanto in Italia), secondo la Società Internazionale dell’Alzheimer Disease.
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