Il progetto - attivato al Centro S. Maria ai Colli -... (Leggi tutto)
Quattro alpini a sorreggere la bara, altri a portare sulle spalle i piccoli mutilatini in lacrime. Poi la commozione degli amici e conoscenti, centomila persone a gremire il Duomo e la piazza e l’intera città di Milano a tributargli onore ed affetto, saracinesche abbassate e chiese listate a lutto. Così il 1° marzo ’56 l’arcivescovo Montini – poi Papa Paolo VI – celebrava i funerali di don Carlo Gnocchi, l’indimenticato cappellano della Tridentina nella disastrosa campagna di Russia e fondatore a guerra finita della “Pro Juventute”, l’opera che coordinò gli interventi assistenziali a favore delle vittime innocenti del conflitto e che gli valse il titolo meritorio di “papà dei mutilatini”.
Don Carlo si spense nel tardo pomeriggio del 28 febbraio di 64 anni fa in una stanza della Clinica Columbus di Milano, dove era stato ricoverato per una grave forma di tumore. Solo il giorno prima aveva recitato il Rosario con due mutilatine, Antonina Tea e Marisa Ghezzi, e aveva dato loro la sua benedizione.
«Era sotto la tenda a ossigeno – ricorda don Giovanni Barbareschi, amico fedele ed esecutore testamentario -. Parlava solo ogni tanto e solo a me. La mattina alle sei chiese il piccolo crocifisso che la mamma gli aveva regalato per la Prima Messa e volle che fosse appeso sulla tenda per vederlo sempre. Lo appendemmo con del nastro adesivo. Don Carlo lo guardava e gli parlava con gli occhi. L’ultima parola che disse fu: “Grazie di tutto…”. Verso sera si aggravò. Improvvisamente si appoggiò con i pugni al materasso; prese, strappando l’adesivo, il crocifisso, lo appoggio alle labbra, lo baciò e così morì».
I funerali furono grandiosi per partecipazione e commozione. Tutti i testimoni ricordano che correva per la cattedrale una specie di parola d’ordine: “Era un santo, è morto un santo”. «Durante il rito – ricorda ancora con Barbareschi – Montini mi disse: “Io non parlo, fai parlare un bambino”. Fu preso un bambino e portato al microfono. Disse: “Prima ti dicevo: ciao don Carlo. Adesso ti dico: ciao, san Carlo”. Ci fu un’ovazione».
L’ultimo dono di don Carlo ai mutilatini e al mondo fu la donazione delle cornee. Il magistero della Chiesa non aveva ancora espresso un parere definitivo sulla questione della donazione degli organi e il nostro Paese ancora non si era dato una legge in materia. Ci pensò don Gnocchi a spingere l’una e l’altro. Furono scelti Amabile Battistello e Silvio Colagrande (guarda qui sotto la sua testimonianza).
«Quasi sgomento – si legge nel diario del professor Cesare Galeazzi, il noto oculista che sfidando la legge eseguì i trapianti – pensavo alla prova che mi aspettava. Come un principiante andavo ripetendomi i tempi dell’intervento… Poi a tratti mi rasserenavo e mi dicevo: don Carlo mi aiuterà. La notizia era ormai su tutti i giornali. Il mio aiuto Celotti, recatosi alla Columbus, fu intercettato dalla polizia: “Qui non si tocca niente”. Non si fece intimorire: aggirò la posizione e compì il suo triste compito di asportare i bulbi oculari di don Gnocchi. All’uscita dalla clinica la sua auto fu per un tratto seguita da quella della polizia. Che poi fece volutamente finta di perderla...».
Amabile e Silvio da allora vedono grazie a don Carlo. A loro, il 25 ottobre 2009, al momento della proclamazione della beatificazione don Gnocchi (nella foto sopra), è toccato il compito di alzare il telo che in piazza Duomo a Milano copriva l'urna con il corpo di don Gnocchi, il “santo” che credette nella forza nascosta del dolore innocente capace di diventare forza redentrice.
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