Il progetto - attivato al Centro S. Maria ai Colli -... (Leggi tutto)
In questi giorni ci stiamo ponendo molte domande. Oltre all’emergenza che ci sta travolgendo, verso la quale cerchiamo strategie per trovare la forza di andare avanti, ci preoccupiamo di come affrontare la "ri-nascita".
Sì, perché è di questo che si tratta. Nascere nuovamente con un bagaglio importante di esperienza personale, professionale e di materiali su cui lavorare: documenti telematici da riordinare, relazioni virtuali da coltivare, difficoltà emotive da sciogliere, routine da organizzare…
Tanti nuovi indizi per il nostro lavoro educativo. Troppi forse, ma che solo con ordine e tempo si possono sviluppare al meglio. La fretta di avere risposte può portarci sulla strada sbagliata.
Fermarsi è infatti il tema della mia riflessione. Sono un’educatrice del Centro Diurno Disabili (CDD) di Legnano (MI) e attualmente, per l’emergenza Covid-19, sto lavorando in Residenza Sanitaria Disabili (RSD). Mi trovo quindi a dover imparare cose nuove come l’organizzazione di un servizio diverso, con i suoi specifici spazi, modi e tempi. Ancora più importante è conoscere i nuovi colleghi e soprattutto i ragazzi, al di là del loro nome, per apprendere e accogliere le loro singole fragilità. Senza dimenticarci che nel contempo dobbiamo acquisire dimestichezza con i fondamentali dispositivi di protezione individuale.
Tra un passo e l’altro, con i colleghi, ho dovuto trovare lo spazio per realizzare qualcosa indirizzato ai ragazzi del CDD che sono e saranno a casa per altri giorni. Momenti che per loro e per le famiglie si rivelano ardui. La quarantena è critica per tutti. Se improvvisata, diventa un vero vincolo, nonostante nasca per tutelarci. Se inserita dove ci sono già delle difficoltà, diventa davvero complessa. Era scontato, ma anche necessario e importante che noi operatori realizzassimo qualcosa per renderli protagonisti anche da lontano.
Ed ora in tempo di coronavirus? Riorganizzare gli ambienti, gestire le fatiche nostre e dei ragazzi, cogliere gli imprevisti sia pratici che emotivi, elaborare l’umore altalenante, cercare risposte non sempre facili. Tutto questo ha creato in me frustrazione, nonostante cercassi di nasconderla e, volente o nolente, mi sono dovuta fermare e fare ordine.
Ho cercato il senso del mio lavoro nelle emozioni positive che fino ad oggi e per ogni singolo giorno mi hanno accompagnata, ho letto tra le righe quello che questa situazione ci può insegnare, ho fatto riemergere in me la voglia di vedere l’altro sorridere, reinventandomi e imparando.
Come un raggio di luce ho buttato fuori quell’energia di sempre che si era affievolita.
Tutto questo perché ho osservato gli altri, sia dentro al mondo virtuale che ci ha inaspettatamente inglobato, sia negli incontri che ho vissuto. Mi sono quindi fermata e ho “guardato oltre”. Come?
Nel creare attività, video, letture, musiche “a distanza”. In queste ho colto il bello del condividere pensieri, proposte e riflessioni con i colleghi, la ricerca del cosa e del come presentarle, tenendo il focus sul bisogno di ogni ragazzo che frequenta il centro, senza dimenticare le possibilità delle singole famiglie. Il fine ultimo era ed è, tuttora, il benessere altrui tramite un atto educativo di senso, reso “originale” e realizzabile grazie ad uno schermo.
Nel ricevere il feedback dalle famiglie. Non solo indirizzato verso il lavoro di noi operatori, ma anche al reciproco scambio, tramite social, tra genitori. Il sentirli creare delle relazioni, il fare gruppo anche se ognuno a casa sua, il conoscersi e il riconoscersi tra di loro, sia nelle gioie che nelle fatiche quotidiane. Lo spronarsi a vedere davvero che “andrà tutto bene” e trovare la forza nella semplicità.
Nell’esplorare, curiosando, i gesti delle persone che incontravo. I sorrisi, le parole disponibili, i gesti positivi (seppur minimi o spesso dati per scontati), il vedere da un altro punto di vista, il conforto, l’esserci, l’incoraggiare, il sostenersi, il sopportarsi e il supportarsi, l’ospitalità benevola delle figure nuove, il fare semplicemente una battuta, il dividere il “peso” e il non giudicarsi nelle cadute e nelle paure.
Nel parlare con la famiglia e con gli amici via etere (evviva le videochiamate). Con loro ho potuto “buttare fuori” e far trovare al bello e al brutto tutta l’accoglienza possibile, così da dare un significato al mio umore ballerino, tra la paura dello “sconosciuto” e la voglia di andare avanti per sconfiggerlo.
C’è anche questo dietro alle quinte del nostro lavoro: oltre al fare, ci sono ricche sfumature che aspettano di essere colte in ogni dove. Noi educatori, tenendo alta la bandiera del nostro operato globale e sfruttando questa delicata fase, dovremmo imparare a fermarci, osservare e ripartire perché non siamo soli.
Io e qualche collega lo stiamo facendo e ora stiamo diventando più forti, più ingegnosi e più competenti di prima. È bello raccontarcelo e riconoscercelo. Dovremmo farlo più spesso.
Come diceva Manzoni: «Regala un sorriso quando hai voglia di piangere».
Francesca Clapis
Educatrice professionale
Centro Multiservizi Fondazione Don Gnocchi, Legnano (Milano)
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